I Giusti. Storia di un salvataggio

Jan Brokken, I giusti, Iperborea, Milano, 2020

Secondo la tradizione ebraica talmudica, nel mondo ci sono sempre almeno 36 Giusti in qualsiasi momento della storia e sono questi i Giusti tra le nazioni.

In questo libro si parla di Giusti. Uomini giusti, infatti, furono coloro che misero a repentaglio la propria vita per soccorrere e aiutare migliaia di persone che, per salvare la vita, dovevano lasciare i territori sul Baltico invasi dalla Germania nazista e dall’Unione Sovietica. Questo salvataggio che si prolungò per alcuni anni, tra il 1940 e il 1941 principalmente, fu opera di uomini che, pur non ricoprendo cariche importanti dal punto di vista politico, si adoperarono per mettere in salvo persone che altrimenti sarebbero finite in campi di concentramento.

Il primo giusto di cui narra Brokken è Jan Zwanrtendijk, direttore della filiale della Philips a Kaunas in Lituania. Dopo essere stato nominato console per lo stato Baltico, il giovane olandese, in collaborazione con il console giapponese Sugihara, mette in piedi un’operazione di salvataggio per migliaia di ebrei. Zwanrtendijk ha un’idea geniale: concedere loro un visto di espatrio per Curaçao, piccolo dominio sconosciuto a tutti, dal momento che era impossibile concedere visti per altre nazioni come gli USA o l’Australia. In realtà queste migliaia di persone non raggiunsero mai Curaçao, ma, tramite viaggi lunghissimi, trovarono la salvezza facendo scalo prima in Giappone e poi a Shangai.

Zwanrtendijk e il console giapponese furono coloro che materialmente posero i timbri sui visti di chi fuggiva dall’orrore dell’olocausto. Intere famiglie trovarono la salvezza in questo modo. Il fatto sorprendente fu che Zwanrtendijk e il console giapponese agirono d’istinto e non operarono in modo coordinato, per quanto agissero totalmente all’unisono.

Il libro di Brokken si fonda su basi storiche e la parte finale del testo è completamente dedicata alle fonti e alla documentazione. Tuttavia l’immane operazione di salvezza rimase per molti anni, seppure terminata la guerra, ignota : Zwanrtendijk tornò al suo vecchio lavoro sino al pensionamento non rivelando a nessuno ciò che aveva fatto. Al console giapponese, inizialmente andò peggio perché fu destituito dalla sua carica e costretto a svolgere umili lavori per poter dare un futuro ai propri figli. Solo in un secondo tempo gli furono riconosciuti i meriti di aver salvato migliaia di vite umane e per questo gli fu corrisposta una pensione da parte dello Stato. Zwanrtendijk invece, solo negli ultimi anni di vita venne a conoscenza di aver effettivamente salvato delle vite umane mentre i riconoscimenti ufficiali arrivarono solo dopo lunghe trattative da parte del figlio e comunque sempre troppo tardi rispetto alla data della morte dell’ex console di Kaunas. Zwanrtendijk per tutta la sua vita si era a lungo tormentato chiedendosi se avesse agito per un buon fine e se effettivamente l’immane operazione avesse dato al salvezza a migliaia di persone. Solo poco prima di morire venne a sapere che molti di coloro che avevano ricevuto il visto per Curaçao erano scampati alla morte e si erano rifatti una vita lontano dall’Europa.

Corredato di bellissime foto in bianco e nero, il libro di Brokken cattura l’attenzione fin dalle prime pagine per l’interesse che suscita la vicenda ma anche per il linguaggio sospeso tra narrazione storica e finzione letteraria.

Vorrei portare all’attenzione del lettore due citazioni molto interessanti.

“Ogni persona è un mondo intero, chi salva una vita, salva il mondo intero”, dice il Talmud e Zwanrtendijk, pur non essendo di religione ebraica, sembra aver effettivamente messo in pratica questo precetto, poiché agì senza chiedersi quante persone avrebbe potuto salvare dal momento che anche la salvezza di una sola vita sarebbe stata sufficiente a dare un segno di speranza per il mondo intero.

L’altro brano che merita una riflessione è quello che si trova all’interno del paragrafo dove si descrive la tomba di Zwanrtendijk. L’ex console della Lituania è sepolto in un cimitero anonimo vicino Rotterdam . Sulla lastra sepolcrale, i visitatori, perlopiù discendenti di coloro che furono salvati, hanno lasciato dei sassolini, come è tipico nella tradizione ebraica. A questo proposito Brokken scrive: “I sassi rappresentano l’incorruttibilità, il rispetto eterno, il legame con il morto. Le pietre resistono alle intemperie, sono incorruttibili come l’amore, eterne come la fede, i fiori appassiscono mentre i sassi rimangono.”

Dietro a questa tradizione c’è un simbolo di eternità, qualcosa che resta nella memoria, così tanto importante nella tradizione ebraica.

Zwanrtendijk aveva capito che le persone a cui aveva offerto la salvezza costituivano questa stessa memoria, la memoria di un mondo che rischiava l’estinzione a causa la follia del nazismo. Molti tra coloro che furono salvati infatti erano studenti delle jeshiva dell’est europeo, le più prestigiose scuole che ancora custodivano il sapere rabbinico, quello degli hassidim e la lingua yiddish. Zwanrtendijk intuì che queste persone rappresentavano un patrimonio culturale che non poteva essere perso: comprese e agì senza porsi troppe domande.

Recensione a cura di Chiara Rantini