Il Cantico dei Cantici. L’amore tra cronaca e segno 

di Daniele Marletta

chagall

L’importante è esagerare, titolava Iannacci. Ma a forza di esagerare è facile dire banalità.
Non ci aspettavamo nulla di particolarmente profondo da una lettura del Cantico dei Cantici fatta da Roberto Benigni. Non è un poeta, non è un esegeta, non è neppure un esperto di letteratura ebraica. Nessuna sorpresa, dunque, per gli imbarazzanti svarioni presi durante il suo spettacolo. Tralasciamo quindi di commentare la sua improbabile traduzione semipornografica e, già che ci siamo, sorvoliamo sul fatto che secondo lui questo Libro sarebbe entrato nel Canone delle Scritture quasi per caso. Sorvoliamo anche sull’inciso politicamente corretto di propaganda omosessualista per cui il Cantico “comprende ogni tipo di amore, anche tra donna e donna, tra uomo e uomo, l’amore per tutto”. Chiudiamo pure benevolmente un occhio su tutto o quasi. D’altra parte, ognuno ha il suo mestiere: se Aristotele si materializzasse tra noi per raccontare una barzelletta, nessuno riuscirebbe a ridere. Certo, Benigni sul palco dell’Ariston è riuscito invece a riscuotere i suoi consensi; a qualcuno è sembrato effettivamente profondo, e questo è di sicuro un inquietante segno dei tempi. Ma tralasciamo anche questo.

C’è una cosa, però, che non si può tralasciare, ed è proprio il fulcro su cui ruota tutta l’esposizione del Cantico che abbiamo udito dal nostro “piccolo diavolo”. Questo libro sarebbe infatti secondo Benigni un canto (o “una canzone”, come lui lo ha definito) solamente umano, solamente erotico. Solo una storia d’amore, un po’ alla Je t’ame… moi non plus di Serge Gainsbourg, con tanto di sospiri e gridolini. Siamo sicuri che il Cantico sia solo questo? È solo come canto erotico che è giunto fino a noi? Decisamente, Benigni non si avvede di una cosa semplicissima, e cioè del fatto che, preso così com’è, solo come canto erotico, il Cantico dei Cantici non è questa gran cosa. Se voglio leggere qualcosa di erotico – qualcosa che sia solo erotico – meglio leggere Alfred de Musset, o Il Diavolo in corpo di Radiguet, o magari Le con d’Irene di Luis Aragon. E per chi avesse gusti più facili dei nostri ci sono anche le cinquanta sfumature e l’altra spazzatura che l’industria editoriale vomita ogni anno sugli scaffali delle librerie. Insomma, ridotto alla sua quintessenza erotica – e soltanto erotica – il Cantico dei Cantici è solo un libro tra gli altri libri, appartenente tra l’altro a una cultura molto lontana dalla nostra, quindi anche più difficile da comprendere nelle sue metafore, meno immediato nella comprensione.

Ciò che veramente differenzia il Cantico dei Cantici da tutti gli altri libri erotici è proprio il principio per cui esso è entrato a far parte delle Sacre Scritture. L’idea che l’amore tra l’uomo e la donna possa essere metafora o, meglio ancora, icona dell’amore tra Dio e la Chiesa non è (come crede il comico) una sorta di escamotage per giustificare la presenza di questo strano Libro dentro la Bibbia. Questa idea è al contrario una intuizione assai più profonda, assai più rivoluzionaria di qualsiasi lettura meramente “erotica” del testo: la trasfigurazione dell’Eros; l’Eros che si mostra per quello che è realmente, spiritualmente. D’altra parte, il riferimento alla natura sponsale del rapporto tra Dio e il suo popolo è abbastanza frequente sia nella letteratura profetica che in quella sapienziale. Il Profeta Ezechiele, tanto per fare un esempio, si dilunga nel rappresentare il Popolo eletto che una donna di straordinaria e sensualissima bellezza. E quando i profeti parlano dei tradimenti, delle apostasie di quello stesso popolo, lo fanno sempre attingendo all’immaginario erotico, parlando di adulterio o di prostituzione. È sempre Ezechiele a non farsi problema nel descrivere quelle apostasie proprio rappresentando visivamente Israele nell’atto di prostituirsi alle nazioni straniere: «ad ogni crocicchio ti sei fatta un altare, disonorando la tua bellezza, offrendo il tuo corpo a ogni passante, moltiplicando le tue prostituzioni. Hai concesso i tuoi favori ai figli d’Egitto, tuoi vicini dal grande membro, e hai moltiplicato le tue infedeltà per irritarmi.» (Ez 16, 25-26)

Il Cantico dei Cantici, insomma, lungi dall’essere solo e soltanto “una canzone d’amore”, ci mostra che l’Eros non finisce qui sulla terra, che anzi giunge più in alto di noi, al di là di noi e delle nostre vite transitorie. Il Cantico ci insegna che l’amore umano per l’altro è già – di per sé – richiamo all’Altro e all’Altrove. Al di là della cronaca che la letteratura può farne, l’amore è un segno che ci insegna Dio.

Nel segno della falsificazione storica

 


di Daniele Marletta

Catherine Nixey, Nel nome della croce. La distruzione del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018

Un libro dal titolo commercialmente accattivante, ma che è nei contenuti addirittura peggiore delle aspettative. Nel risvolto di copertina si dice che chi lo ha scritto avrebbe studiato “Storia e Letteratura Classica a Cambridge”, e questo ci fa rivalutare i tanto disprezzati atenei italiani. Il libro, caso raro, sa essere insieme pedante e pedestre: cita un dovizioso numero di fonti, mescolandole però tra loro, e soprattutto confondendo spesso (volutamente?) le fonti tardoantiche con le tardomedievali, in un potpourri di frasi fatte, luoghi comuni, veri e propri travisamenti. Un profluvio di citazioni decontestualizzate e di improbabili aneddoti fatti passare per verità storiche inoppugnabili.

Il libro si apre con la narrazione a tinte fosche della spoliazione e distruzione del Tempio di Atena a Palmira nell’anno 385, e di simili narrazioni è costellato in quasi tutti i capitoli. L’autrice vuole forse mostrare visivamente nella distruzione dei templi la distruzione dell’Era Classica stessa, dimenticando però un fatto essenziale a cui sarà bene fare accenno. Noi uomini del XXI secolo siamo abituati a vedere nella distruzione dei templi un certo fanatismo, soprattutto islamico: vengono in mente, in particolare le grandi statue del Buddha distrutte in Afghanistan dai talebani, o, in anni più recenti, l’operato dell’Isis in Medio Oriente. In effetti, a leggere questo libro, sembra che l’intento dell’autrice sia più che altro quello di mostrare che i cristiani della tarda antichità e del medioevo si sono mostrati fanatici allo stesso livello. L’autrice dimentica forse che il Cristianesimo non si è diffuso nel XXI secolo e che la distruzione del Tempio di Atena a Palmira risale a un’epoca in cui distruggere e depredare i templi altrui era considerato perfettamente normale. Gli stessi romani (la cui tolleranza e civiltà vengono ampiamente decantate nel corso del libro) lo fecero parecchie volte. Ancora oggi gli ebrei di Gerusalemme pregano presso il “Muro del Pianto”, ciò che rimane del loro grande Tempio distrutto e spogliato dei suoi tesori nel 70 d.C. da quel Tito che Svetonio ebbe a definire “amore e delizia del genere umano”. Era il cosiddetto “Secondo Tempio”: il primo, il Tempio di Salomone, era stato distrutto da Nabucodonosor nel 586 a.C.
Per quanto riguarda il rispetto per i templi altrui (ed è tutto quello che il libro riesce effettivamente a dimostrare) i cristiani non seppero essere al di sopra dei loro contemporanei. Fu una colpa? Dal loro punto di vista certamente sì, dal punto di vista dei contemporanei non fu né colpa né merito. Tutto il libro, per il rimanente, segue questa falsariga: si accusano i cristiani di cose che facevano anche i “classici”.

A questo punto è necessario porsi una domanda e fare una riflessione: come mai è tanto di moda il disprezzo del Cristianesimo? Viviamo, ed è sotto gli occhi di tutti, in un’epoca che si pone a tutti gli effetti come post-cristiana. In quasi tutto il mondo occidentale sono in vigore leggi assolutamente contrarie all’ethos cristiano (aborto ed eutanasia, tra le altre). I simboli cristiani spariscono dalle scuole, dagli ospedali e dagli altri luoghi pubblici. Le chiese si spopolano sempre più. Per molti versi si può dire che al mondo occidentale di cristiano non sia rimasto che il nome. Resta comunque il fatto che il Cristianesimo ha svolto un ruolo fondamentale proprio nella formazione di quella che chiamiamo “civiltà occidentale”, ed è un ruolo che è stato indubitabilmente positivo. Per intenderci, anche un documento come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ha dei principi ispiratori cristiani. Cose come la “libertà individuale” o la “libertà di pensiero” sono state teorizzate in un mondo che si professava cristiano, non islamico o buddista.. Ciononostante, misconoscere il ruolo del Cristianesimo nella nostra cultura è un atteggiamento sempre più frequente. Gli intellettuali, per vezzo o per convinzione, tendono sempre più a dichiararsi “laici”, e i pochi che continuano a dichiararsi cristiani sono spesso ridicolizzati o emarginati. I giornalisti (o gli storici dell’arte come la signora Nixey) prestati alla divulgazione storica si dedicano con certosina pazienza al compito di screditare la fede cristiana e la storia del Cristianesimo.

Per chiunque abbia fatto studi storici seri la verità storica è ben diversa da quella presentata in questo libro. La Civiltà Classica non fu affatto distrutta dai cristiani (che al contrario la conservarono in varie forme, sia culturali che istituzionali). Certo, la storia del Cristianesimo non è stata tutta “rose e fiori”, non sono mancate la pagine oscure. Non furono i cristiani, però, a distruggere il mondo classico. Questo, molto più semplicemente, morì di morte naturale, con l’implosione della parte occidentale dell’Impero Romano, per continuare a vivere ancora per qualche secolo (sebbene in forma modificata) nella parte orientale. Può sembrare un paradosso, o magari uno strano segno dei tempi, ma il fatto è che in una cultura come la nostra, sempre pronta a idolatrare l’oggettività scientifica, solo per la fede cristiana si faccia deroga a tale oggettività.