ESTASI POST-NUCLEARE. UNA PASSEGGIATA NELLA ZONA di Markijan Kamyš

contentMarkijan Kamyš, Una passeggiata nella zona, trad. dall’ucraino di Alessandro Achilli, Keller ed., Rovereto (TN), 2019

Una passeggiata nella zona di Markijan Kamyš, giovane autore ucraino nato nel 1988, è una lettura che intriga, sorprende, conquista pur lasciando spazio a delle pause di riflessione tra un capitolo e un altro. La prima riflessione in realtà è una domanda: quale interesse può spingere un uomo a sacrificare gli anni migliori della propria vita per compiere un simile “viaggio di scoperta” proprio nei luoghi del terribile incidente nucleare del 1986?

Ho cercato una foto di Markijan: è magro, biondo con i capelli sottili, lisci e lunghi, il volto affilato. Il passo successivo è stato quello di leggere alcune informazioni biografiche. È nato due anni dopo il disastro di Chernobyl da un padre ingegnere atomico che fu tra coloro che dovettero “liquidare” il mostro. Markijan è rimasto orfano di padre all’età di 15 anni. Sappiamo che ha frequentato l’università a Kiev, laureandosi in Storia.

Nella Passeggiata scrive di sé al presente, del tempo in cui vive (tre giorni o un mese, non ha importanza) all’interno della zona proibita ma i riferimenti alla vita passata o anche a quella presente fuori dai confini dell’area contaminata si riducono ad alcuni vaghi cenni alla normalità urbana della capitale ucraina.

Il titolo del libro rievoca in me un’altra nota “passeggiata” letteraria, quella di Robert Walser. Tuttavia la differenza è enorme: se nella passeggiata dello scrittore svizzero il vagabondaggio era finalizzato all’incontro con altre grandi figure della letteratura, nel testo di Kamyš l’incontro è principalmente con se stesso, con quella parte del proprio essere liberata dalle scorie della vita convenzionale. Uscire dal tempo della vita quotidiana, dagli spazi socialmente controllati è sempre stato il tema del vagabondaggio letterario fin dal Romanticismo tedesco, passando per l’insurrezionalismo ambientalista di Thoreau fino alle forme di comunità autarchiche post sessantottine. Oltrepassare il filo spinato che separa la vita reale ma inautentica da quella sognata ma autentica costituisce una specie di rito della soglia (di cui Kamyš è un officiante) documentato nelle maggior parte delle religioni: l’iniziato depone l’uomo vecchio a favore di una nuova identità che vive una sorta di comunione estatica con la natura della zona. Tuttavia, a differenza del pensiero di un pioniere dell’ambientalismo come Emerson, il concetto di natura in Kamyš è più allargato e comprende anche il paesaggio industriale che ha subito il destino dell’abbandono. I palazzi di Pripijat commuovono per la loro nudità: quelli che erano luoghi di vita umana sono ora territori di conquista di altre specie vegetali e animali. Le foreste, le paludi e con esse i loro abitanti un tempo emarginati come lupi, cinghiali, linci paradossalmente sono le uniche creature sopravvissute al mito del progresso sovietico su cui Kamyš usa parole di scherno.

Nelle passeggiate nella zona riecheggia anche il mito di Ulisse, ovvero di colui che è costretto a viaggiare per ritornare a casa.

La vera felicità è che ci sarà il filo spinato …per andarsene il prima possibile e dimenticare tutto questo orrore. E scappare in qualche posto caldo, scrive Kamyš ed effettivamente il testo ripercorre un bisogno estremo di fuga a cui è necessario, come fattore d’equilibrio, la certezza del ritorno. La dimensione estatica raggiunta dallo scrittore ucraino, moderno sciamano, all’interno della zona proibita non può durare per sempre perché il rischio di perdersi totalmente sarebbe altissimo.

Sarà un nuovo reset. Tornerai a Kiev… Arriverai a casa e ti addormenterai come un bambino. Niente disturberà i tuoi sogni.

Kamyš si definisce un sognatore, forse uno degli ultimi in mondo che deve marciare serrato sotto i colpi frenetici del consumismo. Nella zona non esiste fretta, se non quella data dal fuggire dagli inseguimenti della polizia o dei branchi di lupi.

La trama della passeggiata è di una semplicità imbarazzante: cammini senza fretta e fantastichi su mille cose…Non c’è un motivo per perdersi nella pianura di Pripijat se non quello di farlo come gesto di ribellione e di riaffermazione della propria libertà e pace interiore.

Qui la mia anima si placa, si tranquillizza. Qui dormire, mangiare, condividere una magra cena a base di scatolette di carne e acqua del fiume contaminato è rispondere ad un’esigenza primaria e riscoprire gli stessi sentimenti che un tempo ebbero gli uomini delle caverne.

Che sia questo il nostro futuro, e Kamyš non sia una specie di profeta?

Chiara Rantini

Preghiera per Černobyl’, voci dall’inverno nucleare.

preghiera per chernobyldi Chiara Rantini

Svetlana Aleksievič, Preghiera per Černobyl, Edizioni e/o, Roma, 2018

Svetlana Aleksievič è una giornalista ucraina nata nel 1948. È una scrittrice appassionata della realtà e per questo non ha avuto vita facile nell’ex-Unione Sovietica.

Durante la sua carriera viene più volte ostacolata in virtù della sua sete di verità e solo nel periodo della perestrojka riesce a pubblicare i suoi libri migliori, romanzi in cui la realtà dei fatti è l’unica grande protagonista, spesso una realtà dura, vissuta da chi è stato dimenticato dalla storia.

Preghiera per Černobyl’ è stato scritto circa dieci anni dopo il terribile disastro alla centrale nucleare. Nel 1997 viene pubblicato e poi tradotto in molteplici lingue. Nel 2001 l’autrice ha compiuto una revisione del testo da cui è stata tratta l’edizione italiana.

Questo libro non è un reportage perché non possiede la freddezza tipica dello stile giornalistico ma non è un saggio perché non ha alcuna pretesa scientifica di spiegare le cause del disastro nucleare. Giusto sarebbe definirlo un “monumento scritto alla memoria” perché esso raccoglie le testimonianze di coloro che hanno visto entrare nella loro vita il “mostro” nucleare.ce

La Terra è improvvisamente diventata piccola. Abbiamo perso l’immortalità: ecco cosa ci è capitato. Abbiamo perso il senso dell’eternità. (Testimonianza di un insegnante)

Svetlana ha ascoltato tutte le voci, da quelle dei bambini a quelle degli anziani, riuscendo persino a far parlare la natura, gli alberi, gli animali e gli oggetti inanimati, autentici custodi della memoria.

Da ciò è nato un romanzo corale di un mondo sofferente che non vuole essere dimenticato. Romanzo corale quindi, ma anche testo filosofico perché proprio a partire dalle testimonianze sorgono molti quesiti di natura esistenziale. Primo tra questi, ovviamente, il valore della vita umana. La parola che ricorre più frequentemente nei racconti di chi ha vissuto l’immane tragedia è guerra. Ci potrebbe stupire ma ciò che hanno vissuto milioni di abitanti di quelle zone è proprio qualcosa di paragonabile a uno stato di guerra. Vaste aree dell’Ucraina e della Bielorussia sono passate sotto il controllo militare e quel poco di libertà di cui i cittadini potevano godere è stato sostituito dalla legge marziale in cui non c’è spazio per la comprensione degli eventi ma solo cieca obbedienza e obbligo di sottomissione.

Domande: “Che mezzi di protezione verranno distribuiti? Ci consegneranno delle tute speciali e dei respiratori?” La risposta era stata no. “È previsto che si scavi solo con i badili”. A parte due giovani insegnanti che si sono rifiutati, tutti gli altri hanno obbedito. (…) Ho forse mai insegnato qualcosa di diverso ai miei alunni? No, solo questo: andare dove occorre, gettarsi nel fuoco, difendere, sacrificarsi. La letteratura che ho insegnato non parlava della vita ma della guerra. (Testimonianza di un’insegnante)chernobyl-ruota-panoramica-maxw-824

Gli uomini giovani e forti (operai, elettricisti, camionisti ecc.) furono richiamati per essere inviati tra le fauci del mostro totalmente sprovvisti di protezioni necessarie sia a livello fisico che psicologico. Il pericolo veniva esorcizzato con la vodka e con una buona dose di propaganda per cui questi giovani erano eroi immolati sull’altare della patria sovietica. Furono definiti paradossalmente liquidatori perché inconsapevolmente stavano “liquidando” un intero paese, un sistema che nel disastro di Černobyl’ aveva raggiunto il suo apice di decadenza. Tutte le testimonianze sono concordi nel dire che dopo l’incidente nucleare nullaavrebbe potuto essere uguale a prima. Molti villaggi furono sepolti sotto molteplici strati di terrascomparendo per sempre dalle cartine geografiche. Questi uomini “liquidarono” la loro terra ma furono anche liquidati perché, una volta tornati alle loro case e alle loro occupazioni ebbe inizio una lunga agonia fatta di ricoveri, sofferenza, strazio per le famiglie.

chernobyl-pripyat_08Abbiamo tutti quanti partecipato …a un crimine…A una congiura. (Testimonianza di un ispettore per la protezione della natura)

Combattere una guerra con le armi e gli eserciti tradizionali sarebbe stato più semplice. Lottare contro un nemico silenzioso e invisibile penetrato in ogni istante e frangente della vita quotidiana ebbe un effetto devastante per la popolazione. Molti si arresero scegliendo di restare in uno stato di incoscienza nella consapevolezza che nessuno li avrebbe aiutati.

Quando perdi la sicurezza di una vita normale restano solo le radici a cui attaccarsi.

Preghiera per Černobyl è un libro che parla di un evento passato proiettato nel futuro: un futuro che potrebbe toccare ognuno di noi.

Quando morirò non seppellitemi al cimitero, il cimitero mi fa paura, ci sono soltanto morti e cornacchie. Seppellitemi nei campi… (Testimonianza di una bambina)
Il male, in sostanza, non è qualcosa a se stante, ma è privazione del bene, così come il buio non è altro che assenza di luce. (Testimonianza di un fuggitivo, un pellegrino, un folle-in-Cristo)