Simbologie e inconscio nel romanzo LA RESA DELLE OMBRE

di Arrighetta Casini

resadelleombreChiara Rantini, La resa delle ombre, Alcheringa ed., Anagni, 2018

Chiara Rantini esce con questo primo romanzo e già si presenta come una scrittrice matura sia per l’originalità della trama molto avvincente sia per la scrittura sapientemente articolata, ricca, piena di suggestioni, capace non solo di aderire alla psicologia dei personaggi, ma di esaltarla, anzi quasi di esasperarla man mano che la tensione emotiva cresce.

L’Autrice fin da subito mette in gioco tante “cose” dense di significato.

Prima di tutto l’immagine di copertina: una bella foto della stessa Autrice che subito coinvolge il lettore. A me ha fatto pensare alla selva oscura di dantesca memoria.

E’ la selva immersa in ombre ingigantite dalla debole luce di un sole malato che a stento si fa strada fra le nuvole in un sole di uniforme grigio.

Sono però le parole che colpiscono di più perchè dense di significato, prima di tutto la parola “ombra” che, oltre che nel titolo, ricorre molte volte nel testo.

Poi la parola “anima” anche questa usata molto usata con un significato vasto come nell’ex ergo di un filosofo presocratico, Eraclito:

“I confini dell’anima, nel tuo andare non potrai scoprirli, neppure percorrendo ogni strada, tanto profonda è la sua ragione”

Qui non è il caso di addentrarsi in una questione che ha attraversato la storia della filosofia, forse meglio ricordare la frase di Blaise Pascal: “Il cuore ha ragioni che la ragione non capisce”.

Molti ed attuali sono i significati simbolici dell’ombra. Simbolo e mito all’origine della conoscenza e della pittura. Il mito della caverna di Platone: solo ombre possiamo vedere noi esseri incatenati nella caverna. O il mito pliniano delle origini della pittura: l’atto di circoscrivere con un segno l’ombra di un uomo per crearne un’immagine.

Ma è sull’uomo, sulla sua psiche che il significato dell’ombra trova la sua espressione più immediata. Già Robert Louis Stevenson con il suo Dott. Jekill e mr. Hide aveva messo in evidenza il lato oscuro che si cela nell’animo umano .Poi la psicanalisi: l’archetipo dell’ombra elaborato da Jung è legato al concetto freudiano di inconscio.

Secondo Jung l’archetipo dell’ombra rappresenta il lato scuro della nostra personalità. Pensare di non possedere un’ombra è pura illusione, solo nell’oscurità più completa si può non avere ombra.

Per Jung l’ombra disconosciuta minaccia l’equilibrio psichico, ma se riconosciuta e vinta è fonte di energia psichica,

E’ questa la “resa delle ombre”?

Certamente Chiara ci propone un viaggio più articolato e complesso, più interessante e più vivo di una teoria psicanalitica, incarnato in personaggi che ingaggiano una lotta contro le “ombre” specialmente quelle più devastanti della follia in un clima di cupo romanticismo che fa pensare a tipologie nordiche.DSCN1474

Il libro si apre con un prologo che, in realtà, è un epilogo.. Ci dice che sì le ombre si possono vincere.

La protagonista ,Lena, ci è riuscita non grazie a sedute psicanalitiche, ma con la forza che solo la donna ha: quella di generare un nuovo essere, di dare la vita.

Si snoda allora il romanzo come un viaggio all’indietro che ci appare come una lunga discesa agli inferi ora attratta, ora respinta dalla fascinazione non solo dell’amore ma anche della pazzia.

Amore e pazzia è Janis.

Già il loro incontro è strano e denso di segni:

“Qualcosa di scuro mi passò vicino, ne vidi l’ombra confondersi con un’altra”

“Un’intuizione mi suggerì che qualcosa di insolito, di bello, di straordinariamente potente aveva incrociato la mia strada”

Ed ancora:
“Al terzo piano le porte si aprirono ed entrò un uomo avvolto in un cappotto di panno nero: Restai immobile paralizzata dallo stupore:L’ombra che era passata vicino a me il giorno precedente era entrata nell’ascensore. Vidi le dita scarne toccare i tasti e distendersi sulle pareti. Non avevo paura e tuttavia avvertivo un senso di mistero.”

Nasce così con “un carico enorme di emozione” un rapporto intenso e difficile, eppure Lena, ragazza che si trova in un bivio incerto della sua vita, in quel suo camminare per tutta la notte con lo sconosciuto prova “gioia”. Anzi molto di più:
“Compresi che la vita non si esauriva in me ma continuava in tutto ciò che mi circondava tramite connessioni segrete. Tutto era vicino, raccolto come in un punto e finalmente non aveva importanza dove mi trovassi e con chi: non ero più sola”

E’ una sensazione bellissima che ritorna dal passato grazie a Janis che Chiara presenta così:

“Lui era alto magrissimo, il volto affilato come quello di un lupo, i lineamenti perfetti incastonati in una carnagione luminosissima” La

Janis è un musicista, anche Lena è un’artista, dipinge.

Inquietante è anche la casa di Janis:
“Una sensazione di tristezza mi pervase l’anima: lo spazio della casa era solo un universo vuoto senza porte arricchito da pochi essenziali mobili e moltissime stoffe con tende, cuscini, tappeti, arazzi”

Ma il “il doppio” di Janis non è solo una condizione interiore luce-ombra, ma anche fisica: Janis ha un fratello maggiore Adrian con il quale vive quasi in simbiosi , un’unità che si è formata di fronte all’indifferenza e alla povertà affettiva della famiglia.

Lena si troverà nel mezzo, protetta in un certo senso dalla presenza di Adrian che sempre si trova fra i due.

I personaggi del romanzo sono pochi e vivono in un loro mondo che non è tipizzato quanto a tempo e spazio, l’ambiente è proiezione di stati d’animo.

Lena, Janis e Adrian occupano quasi per intero la scena, appare appena Marta, ama Adrian ma sta in disparte conscia che la gran parte della vita di Adrian è occupata da Janis. C’è poi un personaggio sfuggente che appare poco è Alma che si configura come colei che può curare, che sa.

Lena è la protagonista, racconta in prima persona, il susseguirsi delle esperienze ad alta tensione emotiva fino alla drammaticità nelle quali si è gettata con tutta se stessa per sfuggire ad una famiglia apprensiva e appiattita nella più squallida normalità.

Per contrasto l’amore per Janis ha subito i caratteri dell’eccezionalità, una quotidianità che è sempre sopra le righe, dove il sublime, il terribile, l’angoscioso, il tragico si alternano senza trovare una pur minima composizione in una possibile normalità.

Mi sembra che la scrittura di Chiara esalti tutto questo e crei un clima di tensione romantica che rimanda a certi stilemi cari allo Sturm un Drang.

Prima di tutto tratteggiando un paesaggio che non è solo sfondo degli avvenimenti, ma riflette, accompagna, talvolta amplifica gli stati d’animo.

E’ un paesaggio immaginario, Himmelort non esiste, ma ha le caratteristiche di una città del nord: il freddo, i canali, il bosco. Spesso ha i caratteri della fiaba dove tempo e luogo rimangono indeterminati.SDC13493h

“Percorremmo una strada stretta, fangosa che tagliava il centro di uno sparuto villaggio di case contadine dai tetti di paglia…..

L’elemento acqua ha molta importanza in questo paesaggio dell’anima: la pioggia purificatrice, l’acqua morta dei canali o quella oscura e ferma del lago che sembra voler inghiottire Lena e Janis, ma è il mare, ora quieto che appare in uno scorcio, ora in tempesta, ma sempre esaltante e liberatorio.

Vorrei ritornare sulla parola “anima” che spesso ritorna nella narrazione.

La storia di Lena e Janis che Chiara racconta è una storia d’amore nella quale si parla pochissimo di corporeità. Il corpo non appare mai nel godimento dei sensi ma nel dolore, il pianto, la malattia. Questo amore si muove in un’altra dimensione, quella dell’anima, come a voler comprendere nella relazione l’intero individuo esaltando la parte emozionale e psicologica, ancora di più: c’è la volontà di scavare a fondo nell’irrazionalità e nella pericolosità di questa situazione amorosa, di questo amore “misterioso e inaccessibile”

Già Lena aveva intravisto questo percorso difficile:

“In lui avevo visto come in uno specchio un destino di profonda sofferenza e di gioia estatica”

Solo una parola “amore” per indicare tante storie.

Nel romanzo Alma, la donna sapiente, indica tre vie dell’amore:
“La prima segue un percorso pianeggiante finisce di perdersi in un nebbioso orizzonte. La seconda si arrampica per un pendio terminando contro una parete rocciosa. La terza segue una via d’acqua per poi dileguarsi in una vastità luminosa che avrei potuto indifferentemente indicare come cielo o come mare”

Ancora l’acqua in cui la vita è nata e si rigenera potrà portare alla “ resa delle ombre”?

Tra anomalie e resilienza la vita si fa poesia

Le coincidenze significative

di Daniele Marletta

Roberto Crinò, Le coincidenze significative, Ensemble, 2018

Oltre che poeta, Roberto Crinò è autore di canzoni ed egli stesso cantante. Questo trasparisce bene dai testi di questa raccolta non scontata, sebbene a volte acerba.

È una raccolta che ha una attenzione particolare per le parole, una attenzione con qualche eco montaliano, che fonde scrittura poetica e toni a volte prosastici. Molti di questi componimenti potrebbero effettivamente essere canzoni.
Scrive giustamente Maria La Bianca nella Prefazione alla raccolta che sono «proprio loro, le parole così accurate, ad avere voce propria, oltre il sentire di chi fa poesia. Perché questo è il tema delle coincidenze significative, la vita che si fa poesia attraverso l’amore e le sue contraddizioni.»

Emerge nella scrittura di Crinò una sorta di narrazione poetica in cui si mescolano momenti del paesaggio geografico, storico e umano della Sicilia, terra di nascita e residenza dell’autore, con echi del suo passato letterario.

Concludiamo riportando qui di seguito La fenice, componimento di apertura della raccolta.

E Ciàula riemerse,
guidato dalla chiarìa lunare
tornò in superficie,
appena fuori dal tunnel,
posò a terra il pesante carico.

E Ciàula corse,
nella campagna d’argento,
finalmente consapevole,
si portò il fardello delle ferite,
ma non si voltò più indietro.

Dice che partì per l’America,
feroce come un leone,
rinato come la fenice.

Dice che si mise su un treno,
quello che solo la notte,
attraversa i sogni umani.

E Ciàula sorrise,
il pensiero rivolto oltre,
carico di tutti i sospiri
e le sconfitte dei suoi antenati,
celebrò la vita.

E Ciàula pianse,
per tutta la gioia fin lì ignota,
scrutò il grande placido astro
e gli prestò giuramento solenne,
sarebbe stata sempre sua guida,
scintilla, lanterna, nuovo inizio… la Luna!

In quell’oceano di luminoso silenzio,
non aveva più paura del buio,
perché non se lo portava più dentro.
E Ciàula, se ne andò,
Via!

PASSAGGIO A SUD, un cammino lungo l’Appennino

passaggioAntonio Gonnella, Passaggio a sud, Ali&noeditrice, Perugia, 2019

recensione di Chiara Rantini

Nel cammino risiede la gentilezza, il cammino è un atto pacifico, la lentezza permette la comprensione, la conoscenza. In un mondo che fa della velocità un vanto, il cammino è un vero atto politico, dirompente, per molti disarmante, è un’azione rivoluzionaria. Il cammino è cambiamento profondo, il proprio.

Basterebbe fermarsi qui, meditando queste parole, per capire che affrontare un cammino non è esaudire un capriccio bensì un qualcosa che nasce prima dal cuore, dalla mente e infine si rende concreto sulla strada. Ed è proprio con questo spirito che Antonio Gonnella costruisce il suo cammino che dalle Marche lo conduce a sud, fino in Irpinia.

Nelle pagine introduttive di Passaggio a sud, Antonio parla di sé, del suo innato amore per la montagna, della curiosità giovanile che lo ha portato a confrontarsi con le maestose Alpi, maestose ma incredibilmente lontane dal suo cuore. L’Appennino, questa variopinta cordigliera che attraversa l’Italia da nord a sud, Antonio lo ha sempre davanti (abita in Toscana, nel Valdarno, per quanto le sue origini siano pugliesi) e irresistibilmente chiama. Così dopo aver percorso il Tratturo Magno, da L’Aquila a Foggia, sulle antiche vie della transumanza, nasce l’idea di continuare a vivere l’Appennino, a dispetto di coloro che lo abbandonano ogni giorno di più. Parte a luglio del 2017, destinazione Marche. Ovunque passa trova tracce del sisma del 24 agosto 2016: le città sono deserte ma gli abitanti non hanno perso la voglia di lottare e ogni giorno, per quanto sfollati in riviera, tornano nei loro paesi per farli rivivere con il lavoro in una sorta di “pendolarismo al contrario”. Fatica e sudore, questo è sempre stato l’Appennino per chi da millenni ci è vissuto e continua ostinatamente a viverci. Un luogo per conoscerlo, lo devi camminare, afferma Antonio scrivendo una grande verità perché per amare un territorio è necessario percorrerlo, prenderne possesso con lo sguardo, toccare la sua terra, aspirare il profumo dei suoi boschi e delle sue praterie, in modo quasi ferino, perché l’attaccamento e quindi il radicamento nascono da una relazione che non può essere assolutamente virtuale.

Questo è un libro che unisce gli italiani, così divisi da insulsi campanilismi, e fa dell’Appennino la comunità per eccellenza, il luogo del bene comune dove tutti si aiutano e rispettano l’ambiente in cui vivono. Sembra che la storia con la esse maiuscola non sia passata di qui e invece si scopre che, anche nei piccoli centri montani, ci sono vestigia dell’insediamento di antichissimi popoli, perlopiù genti dimenticate perché schiacciate e inglobate dai grandi imperi. Parlando di questo, Antonio ha continuato il suo cammino in Abruzzo, anch’esso martoriato dal sisma del 2009. Terra di parchi, di bellezze naturalistiche e artistiche di grandissimo spessore, è il luogo dove sono evidenti gli effetti del cambiamento climatico. Il ghiacciaio del Gran Sasso sta scomparendo, il dissesto idrogeologico avanza e tragedie come quella di Rigopiano sono la naturale conseguenza. Non è più solo una questione di difesa dell’ambiente, ma come scrive Antonio una questione di sopravvivenza. Non tanto per noi, quanto per le prossime generazioni a cui lasceremo un ambiente divenuto invivibile. Ecco allora che un cammino diviene un segno, un grido di protesta e di ribellione a questo stato di cose che moti danno per irreversibile, cullandosi nella propria incapacità di reazione. Camminare e non viaggiare, conoscere e non vedere superficialmente, prima che esperienze sono scelte di vita dettate da un’etica ben precisa. Non basta di dire “no”: i “no” vanno praticati e resi visibili a tutti. Passaggio a sud è un libro ricco di spunti da questo punto di vista e infatti molte delle sue pagine sono occupate da interessanti approfondimenti su vari aspetti del territorio: dallo smantellamento del Corpo Forestale alla banda del Matese, approfondimenti necessari per contestualizzare questo percorso.

E arriviamo all’ultima parte del Cammino. Antonio giunge in Molise, terra di emigrazione per eccellenza: emigrazione interna ed esterna. Qui, qualcuno è tornato e più di coloro che non sono mai dovuti andare via, sa quanto è importante l’accoglienza. Antonio e Francesca vengono accolti come un tempo venivano accolti i viandanti, i pellegrini che per vari motivi, religiosi o lavorativi, avevano lasciato le proprie case, avventurandosi in luoghi lontani spesso senza avere un soldo in tasca, facendo affidamento sulla generosità e l’ospitalità dei popoli appenninici. La solidarietà dimostrata da queste genti di montagna è un altro tratto comune, come lo sono le faggete e la cultura alimentare legata alla pastorizia e alla coltivazione del castagno. Ma la montagna non è solo un bucolico idillio. La montagna e quindi l’Appennino, soffrono ( e più si scende a sud, maggiore è la sofferenza) per il disinteresse della politica verso le attività economiche locali, come l’agricoltura e la pastorizia. Incontrando le persone, parlando di questa terra, Antonio dà voce a questa silenziosa protesta che non perde mai il carattere dignitoso che è proprio dei suoi abitanti. Ecco allora che i volti delle donne e degli uomini che lottano ogni giorno perché venga riconosciuto il valore del loro lavoro (viticoltori, pastori, boscaioli) divengono delle immagini di resistenza verso le quali è difficile restare indifferenti. Dopo il Sannio, il cammino giunge alla meta: Irpinia, terra di sismi mai dimenticati, di ricostruzioni mai finite e terra di lupi.

Si dice che nel lupo l’uomo veda se stesso. Probabilmente è vero anche il contrario, che lo sguardo profondo del lupo sia fatto per scrutare e leggere le cose più nascoste che sono dentro di noi, così scrive Nazzarena Luchetti, contribuendo alla buona riuscita del libro di Gonnella. I lupi sono un altro elemento unificante degli Appennini e sono il segno di una possibilità di sopravvivenza, perché nell’età della decrescita felice, ciò di cui si deve occupare l’uomo non risponde alla parola “progresso”. Sopravvivenza, umanità, rispetto e solidarietà sono i concetti chiave in un’epoca che non può più aspettare il tempo delle ideologie.

Passaggio a sud è questo tentativo e un atto di amore per il nostro paese.

La poetica di Tomas Tranströmer

tran.odtdi Serenella Menichetti

L’editore Crocetti pubblica l’Antologia di poesie di Tomas Tranströmer nel 2011, dopo il Nobel. Un volume che va letto e riletto non solo in funzione del prestigiosissimo riconoscimento, ma sopratutto per una poesia che oggi in particolar modo in Italia può apparire altra rispetto alla corrente (o alle correnti) dominante, e che quindi ci dà un metro di misura per leggere la letteratura contemporanea.

Poesia che affonda le sue radici nella preparazione e nella passione per la musica dell’autore, densissima nell’incontro di opposti che si nutrono di simbolismo, eppure incredibilmente limpida, lucida nella sua oscurità. Una densità però non lineare, come perfettamente osserva Maria Cristina Lombardi in un’ottima ottima prefazione. Ma leggere la sua poesia non è un percorso lineare: è come entrare in una labirintica chiocciola. La concentrazione dei concetti in immagini conduce alla contrazione degli elementi connettivi, dei passaggi logico-sintattici, alla prevalenza dei sintagmi nominali. La capacità di realizzare densità poetica non è in Tranströmer tanto imputabile alla parola, al singolo lessema semanticamente pregnante, ma alla rete capillare di nessi che vengono a stabilirsi tra le parole. Tale sottile interazione, non facile a cogliersi immediatamente, dà spazio alla molteplicità interpretativa, alla pluralità del senso, lasciando spesso misteriosi i referenti delle metafore. Questa “oscurità”, comune a molta poesia contemporanea, in Tranströmer nasce dalla volontà di fuggire ai vuoti schemi della comunicazione massificata, di contrapporsi ai linguaggi pubblicitari, rifuggendo dall’univocità e proclamando la “molteplice voce” della parola.

8ed35f03919e23d4456342622b5bbee3-Tomas-Transtromer-stenpoesi-Pia-Nordlander-001_webbOscurità che tende ad assolutizzarsi nel concetto del silenzio, base e rifugio della parola. Concetto privo di linguaggio ma dal quale emerge un linguaggio. Che è esso stesso metafora e simbolo. Incontro d’opposti. E suo connotato definitivo all’interno di una sorta di pessimismo cosmico a cui tende il poeta svedese (pur con alcuni accenni di illuminazione, si veda il meraviglioso testo Sfere di fuoco). Poesia che ha la sua maggiore definizione non tanto nella sua lettura, quanto nell’influenza che ha avuto nei poeti contemporanei sopratutto americani. Molti infatti hanno dichiarato d’aver attinto dalle sue poesie, dalle sue immagini (Iosif Brodskij, Derek Walcott, Seamus Heaney), facendo di Tomas Tranströmer un vero cult-poet.

ETTY HILLESUM, un’oasi di serenità nell’impero del male.

etty-hillesumdi Chiara Rantini

Se dovessi descrivere Etty a chi non la conosce, userei un’immagine e un pensiero. L’immagine, un prato sconfinato disseminato di fiori sotto un sole gentile e tiepido, il pensiero, ciò che la stessa Hillesum scrisse quando si trovava nel campo di lavoro di Westerbork:

“Provo grande stupore per gli uomini che non conoscono limite al male.”

Luce, pace, stupore quasi infantile sono le qualità che la caratterizzano all’inizio della terribile esperienza di Westerbork, anticamera per Auschwitz, qualità che miracolosamente restano in lei intatte fino al termine della sua vita terrena.

Nel luglio del 1942, mentre in Europa infuria la guerra, Etty non cerca un rifugio (in quanto ebrea era in costante pericolo) lontano dagli orrori continentali ma si offre volontaria per assistere le migliaia di ebrei e profughi tedeschi politicamente sgraditi al Reich nel campo di lavoro di Westerbork. Ogni giorno si aggira instancabilmente tra le baracche distribuendo generi alimentari (quel poco che è disponibile) e confortando con una parola o con uno sguardo coloro che, separati dai propri cari e dalla propria vita, soffrono indicibilmente. Ma lei non si lascia sedurre dalla disperazione. Volge gli occhi al cielo, annota il tempo del giorno, e con una forza straordinaria, tenta di vedere oltre la situazione contingente “trasformando in fiabesca realtà la sconvolgente atroce condizione di Westerbork.”

Attingendo alla sapienza talmudica e hassidica, Etty sa che il dolore provato nel campo è maggiore di quanto un essere umano possa tollerare e che la vita non è un bene che deve essere conservato ad ogni costo, a dispetto della dignità e dell’umanità di ciascuno. E tuttavia sa anche che il seme che muore non è invano: porterà frutto, rappresentando così il segno di un tempo nuovo, un tempo di rinascita. Sembra assurdo, illusorio, consolatorio sviluppare questo genere di pensiero in un luogo dove la minima libertà personale è azzerata, ma per Etty questo è il contenuto della propria fede e lo scopo ultimo dell’esistenza: vivere per volgere il male in bene. “Ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo rende inospitale” scrive mentre intorno a lei il male prende forma e si diffonde come un veleno nel cuore delle persone.

Di famiglia non osservante, Etty aveva incontrato Dio nella sua vita grazie a Julius Spier. Maestro, amante, fratello, amico, Julius, devoto junghiano, era per lei come un intermediario con Dio. Leggendo i Vangeli e soprattutto gli scritti di san Paolo, la Hillesum trovò nel cristianesimo la formula migliore per rendere perfetta la vita dell’uomo. Facendo riferimento al contenuto nel capitolo 13 della Lettera ai Corinti, diceva che la terra potrebbe essere un luogo di pace se per tutti avessero un valore le parole usate da san Paolo nel suo Inno all’Amore. Secondo il pensiero della Hillesum, infatti, “non esiste nesso casuale tra il comportamento delle persone e l’amore che si nutre per il prossimo”, ovvero l’Amore è svincolato dal suo oggetto e si posa indistintamente su tutti e su tutto. Per quanto vivesse come una prigioniera, Etty non percepì mai di essere stata privata della libertà perché il suo concetto di libertà andava ben oltre l’idea di una possibilità di movimento o di espressione autonoma. Simile all’idea che i martiri avevano della libertà, sapeva bene che la violazione operata dal male nei confronti del corpo e dell’anima non poteva avere conseguenze se ostinatamente l’uomo continuava a amare la vita e a attendere con fiducia “l’avvenire custodito da Dio”.

“Marchiati dal dolore per sempre eppure la vita è meravigliosamente buona se custodiamo Dio nelle nostre mani” avrebbe detto insieme a un altro martire dei campi di concentramento Dietrich Bonhoeffer.

Il 7 settembre del 1943, dopo un anno trascorso a Westerbork, Etty salì sul treno diretto a Auschwitz. Nell’ultima cartolina ritrovata molto tempo dopo la sua partenza, tra i saluti e la consapevolezza di essere destinata alla morte, scrive queste parole di congedo citando il testo del salmo 30 (31) versetto 4:

“Tu sei la mia roccia e il mio baluardo, per il Tuo nome dirigi i miei passi”.

I passi mortali di Etty si perdono la mattina del 30 novembre 1943 ma essi continuano a risuonare nei suoi scritti, tra le pagine del diario e nell’anima degli spiriti liberi che vi prestano ascolto.

westerbork

 

UN PO’ DI BIOGRAFIA

Esther Hillesum nasce in una famiglia ebraica liberale. Suo padre, Louis Hillesum, è un dottore di lettere classiche e preside della scuola media di Deventer. Sua madre, Rebecca Bernstein, era fuggita dai pogrom russi nel 1907. Etty Hillesum ha due fratelli, Jaap che studierà medicina e Mischa che studierà pianoforte. Etty consegue la laurea in Giurisprudenza nel 1939 e poi approfondisce lo studio della lingua e della letteratura russa. Il 10 maggio 1940, le truppe naziste invadono i Paesi Bassi.

Etty, in quel periodo, si guadagna da vivere dando lezioni private di russo. Ha amanti molto più grandi di lei. Il 3 febbraio 1941, Etty Hillesum inizia una terapia con Julius Spier. Rifugiato nei Paesi Bassi per sfuggire alle leggi antisemite naziste in Germania, è un noto chirologo, seguace del pensiero di Carl Gustav Jung. Spier è circondato da un gruppo di ammiratori. Diventa il suo maestro spirituale, lei lo chiama “la levatrice della mia anima”. Poco dopo l’incontro con Spier, Etty inizia a scrivere, il 9 marzo 1941, un diario. Dodici mesi, scrive: “Sono venuta al mondo il 3 febbraio” e celebra il suo primo anno con Spier, definendolo “l’anno più bello” della sua vita.

Nel suo diario, riferisce l’inesorabile spirale delle restrizioni dei diritti e delle persecuzioni che portano in massa gli ebrei olandesi nei campi di transito, e poi alla deportazione. Anche Etty non sfugge a questo destino e, da Westerbork, campo di transito situato nel nord-est dei Paesi Bassi, scrive le più belle pagine del suo diario. Nel campo di Westerbork, è responsabile della registrazione dei nomi delle persone deportate.

I genitori e Etty stessa moriranno a Auschwitz nel 1943. Jaap, indebolito dall’atroce vita nei campi, non sopravviverà all’evacuazione di Bergen-Belsen nel 1945. Sono gli scritti di Etty che daranno una posterità a questa famiglia, per il loro grande valore storico, spirituale ma anche letterario.

BIBLIOGRAFIA essenziale:

Diario 1941-1943 – Edizione integrale, Milano, Adelphi, 2012

Lettere 1942-1943 (a cura di Chiara Passanti; prefazione di Jan Geurt Gaarlandt), Milano, Adelphi, 1990.

Etty Hillesum. Pagine mistiche (a cura di Cristiana Dobner), Milano, Àncora, 2007

Lettere inedite, in Comunità di Ricerca Etty Hillesum, Con Etty Hillesum, Sant’Oreste, Apeiron Editori, 2009

Nel segno della falsificazione storica

 


di Daniele Marletta

Catherine Nixey, Nel nome della croce. La distruzione del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018

Un libro dal titolo commercialmente accattivante, ma che è nei contenuti addirittura peggiore delle aspettative. Nel risvolto di copertina si dice che chi lo ha scritto avrebbe studiato “Storia e Letteratura Classica a Cambridge”, e questo ci fa rivalutare i tanto disprezzati atenei italiani. Il libro, caso raro, sa essere insieme pedante e pedestre: cita un dovizioso numero di fonti, mescolandole però tra loro, e soprattutto confondendo spesso (volutamente?) le fonti tardoantiche con le tardomedievali, in un potpourri di frasi fatte, luoghi comuni, veri e propri travisamenti. Un profluvio di citazioni decontestualizzate e di improbabili aneddoti fatti passare per verità storiche inoppugnabili.

Il libro si apre con la narrazione a tinte fosche della spoliazione e distruzione del Tempio di Atena a Palmira nell’anno 385, e di simili narrazioni è costellato in quasi tutti i capitoli. L’autrice vuole forse mostrare visivamente nella distruzione dei templi la distruzione dell’Era Classica stessa, dimenticando però un fatto essenziale a cui sarà bene fare accenno. Noi uomini del XXI secolo siamo abituati a vedere nella distruzione dei templi un certo fanatismo, soprattutto islamico: vengono in mente, in particolare le grandi statue del Buddha distrutte in Afghanistan dai talebani, o, in anni più recenti, l’operato dell’Isis in Medio Oriente. In effetti, a leggere questo libro, sembra che l’intento dell’autrice sia più che altro quello di mostrare che i cristiani della tarda antichità e del medioevo si sono mostrati fanatici allo stesso livello. L’autrice dimentica forse che il Cristianesimo non si è diffuso nel XXI secolo e che la distruzione del Tempio di Atena a Palmira risale a un’epoca in cui distruggere e depredare i templi altrui era considerato perfettamente normale. Gli stessi romani (la cui tolleranza e civiltà vengono ampiamente decantate nel corso del libro) lo fecero parecchie volte. Ancora oggi gli ebrei di Gerusalemme pregano presso il “Muro del Pianto”, ciò che rimane del loro grande Tempio distrutto e spogliato dei suoi tesori nel 70 d.C. da quel Tito che Svetonio ebbe a definire “amore e delizia del genere umano”. Era il cosiddetto “Secondo Tempio”: il primo, il Tempio di Salomone, era stato distrutto da Nabucodonosor nel 586 a.C.
Per quanto riguarda il rispetto per i templi altrui (ed è tutto quello che il libro riesce effettivamente a dimostrare) i cristiani non seppero essere al di sopra dei loro contemporanei. Fu una colpa? Dal loro punto di vista certamente sì, dal punto di vista dei contemporanei non fu né colpa né merito. Tutto il libro, per il rimanente, segue questa falsariga: si accusano i cristiani di cose che facevano anche i “classici”.

A questo punto è necessario porsi una domanda e fare una riflessione: come mai è tanto di moda il disprezzo del Cristianesimo? Viviamo, ed è sotto gli occhi di tutti, in un’epoca che si pone a tutti gli effetti come post-cristiana. In quasi tutto il mondo occidentale sono in vigore leggi assolutamente contrarie all’ethos cristiano (aborto ed eutanasia, tra le altre). I simboli cristiani spariscono dalle scuole, dagli ospedali e dagli altri luoghi pubblici. Le chiese si spopolano sempre più. Per molti versi si può dire che al mondo occidentale di cristiano non sia rimasto che il nome. Resta comunque il fatto che il Cristianesimo ha svolto un ruolo fondamentale proprio nella formazione di quella che chiamiamo “civiltà occidentale”, ed è un ruolo che è stato indubitabilmente positivo. Per intenderci, anche un documento come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ha dei principi ispiratori cristiani. Cose come la “libertà individuale” o la “libertà di pensiero” sono state teorizzate in un mondo che si professava cristiano, non islamico o buddista.. Ciononostante, misconoscere il ruolo del Cristianesimo nella nostra cultura è un atteggiamento sempre più frequente. Gli intellettuali, per vezzo o per convinzione, tendono sempre più a dichiararsi “laici”, e i pochi che continuano a dichiararsi cristiani sono spesso ridicolizzati o emarginati. I giornalisti (o gli storici dell’arte come la signora Nixey) prestati alla divulgazione storica si dedicano con certosina pazienza al compito di screditare la fede cristiana e la storia del Cristianesimo.

Per chiunque abbia fatto studi storici seri la verità storica è ben diversa da quella presentata in questo libro. La Civiltà Classica non fu affatto distrutta dai cristiani (che al contrario la conservarono in varie forme, sia culturali che istituzionali). Certo, la storia del Cristianesimo non è stata tutta “rose e fiori”, non sono mancate la pagine oscure. Non furono i cristiani, però, a distruggere il mondo classico. Questo, molto più semplicemente, morì di morte naturale, con l’implosione della parte occidentale dell’Impero Romano, per continuare a vivere ancora per qualche secolo (sebbene in forma modificata) nella parte orientale. Può sembrare un paradosso, o magari uno strano segno dei tempi, ma il fatto è che in una cultura come la nostra, sempre pronta a idolatrare l’oggettività scientifica, solo per la fede cristiana si faccia deroga a tale oggettività.

UN PARADISO PER ICARO di Chiara Rantini – riflessioni di Gabriella Becherelli

cover paradisoChiara Rantini, Un paradiso per Icaro, Alter Affluenti Poesia, Ed. Ensemble, Roma, 2018

Dalla notte dei tempi i miti ancora oggi raccontano la nostra essenza, il nostro modo di essere e di affrontare la vita. Icaro rappresenta l’impulso primordiale di salvezza, un forte anelito verso il desiderio di libertà, incarna quello slancio vitale così forte e prorompente che non conosce la via di mezzo. Icaro è caduto in volo per troppo entusiasmo, la stella suprema con il suo calore ha sciolto le sue ali di cera facendolo precipitare e morire. La sua buona intenzione però merita comunque un paradiso, un luogo di pace per ritrovare se stesso nell’armonia. Il titolo di questa silloge di poesie di Chiara Rantini è perfetto, perché il suo modo di fare poesia dona a Icaro un paradiso, attraverso la compassione. Lei rappresenta il suo volo dolcemente sopra i luoghi che portano gradatamente verso il cielo. Il suo percorso è svolgimento necessario, ragionamento amorevole che sfiora le cose e non le travolge. E’ componimento ponderato e sentimentale, formato da dettagli determinanti e forti per comprenderne meglio l’ essenza. La sua compassione esistenziale la guida sempre e la spinge con delicatezza a guardarsi intorno, poi sosta e regala sul filo della malinconia quel paradiso di liberazione. I suoi testi trattengono le emozioni, in seguito le libera con discrezione e rispetto verso quei sentimenti che potrebbero travolgere.

icaro

Prosegue nel viaggio delle pure emozioni guidate dal tempo, che prende forma sul nostro modo di intenderlo. Lei pratica la poesia, nella semplificazione dell’ascolto, dell’osservazione profonda che dall’esterno s’inoltra nell’interiorità. “Partenze” e “Ritorni”, sono i primi due titoli della silloge, fanno parte del suo percorso dentro la natura, presenza costante nei sentimenti del divenire. L’Atman è lontano e privo di confini ma si può intuire ,sentire, respirare attraverso la natura del vivere, attraverso i fenomeni. L’Atman non ha ali di cera, è volo immobile che si manifesta costantemente e fa parte della nostra esistenza sulla terra rossa. Dopo un lungo viaggio rimangono i “Fragmenta”, la parti più preziose, da cui attingere in contemplazione.

Un dono definito nelle tinte del ricordo, da cui Icaro può trovare il suo paradiso.

Gabriella Becherelli

 

 

Vederci doppio

Recensione di Chiara Rantini

Mirko Tondi, Vederci doppio, Robin edizioni, Torino, 2018

 

vederci doppioAccolgo con grandissimo entusiasmo questa nuova fatica letteraria di Mirko Tondi. Questa volta non si tratta di un romanzo ma di una raccolta di racconti molto singolare.

Quarantadue racconti divisi in blocchi e alternati da trilogie tematiche. Mirko Tondi propone al lettore qualcosa di nuovo anche nella struttura e nella fruibilità. Sì, perché, come l’autore stesso scrive nella breve prefazione, questi racconti, nati nel corso di sette anni in situazioni spesso fortuite e non proprio canoniche, andrebbero letti ovunque, in ogni luogo, anche il più bizzarro. E certo per la loro brevità e intensità si prestano bene a questo tipo di operazione. Ma pur, leggendoli singolarmente e in tempi diversi, occorre non perdere di vista il tema che li racchiude. Lo si evince chiaramente dal titolo.

“Vederci doppio” significa non considerare un unico piano della realtà.

Come gli scrittori sanno bene, quella che ci appare come l’autenticità dei fatti, di solito, è il frutto di una visione univoca. Scrivere aiuta a rendere la vista più acuta e capace di muoversi a 360 gradi. Perciò, i protagonisti dei racconti narrati in questa raccolta, in prima e in terza persona, vivono e riflettono questo sfasamento della realtà. Si presentano in un determinato modo ma potrebbero essere anche tutt’altro.

Visioni, incubi, situazioni oniriche conducono il lettore in un universo immaginario dove i confini tra la ragione e la follia vanno a braccetto. E tuttavia, per quanto in modo ironico e talvolta sarcastico, tra le pagine di questo libro si affrontano temi importanti come, ad esempio, la ricerca di una possibile convivenza pacifica (Mormorii e tenebre) o il senso di incompletezza che caratterizza l’uomo e il suo paradossale amore per questa condizione di “mancanza”.

Scrive Mirko, a tale proposito, nel racconto Caffè sul gas, uno dei più belli di questa raccolta:

Ho sempre amato i corpi imperfetti, i cieli nuvolosi, i dipinti astratti e i film col finale aperto; ho sempre amato ciò che era in divenire, la sua parvenza di sorprendente mutevolezza. Questa staticità dalle solida fondamenta invece mi blocca qua, tra i muri bianchi e vuoti di casa mia, dove avrei potuto appendere quadri e mensole, foto e poster, ma dove non ho messo niente, perché è più che mai vero che la propria casa riflette se stessi, e noi siamo incompleti, entrambi.

Atmosfere kafkiane si respirano in molti testi come, ad esempio, in Tutto si risolverà per il peggio, dove Mirko sembra divertirsi a provocare il lettore dialogando con esso su bizzarre storie a finale tragi-comico, toccando note di un sarcasmo auto-distruttivo di notevole spessore e che non può non richiamare alla mente anche altri autori della letteratura anglo-americana.

Leggendo questi racconti, spesso si ha la sensazione di trovarsi a teatro o al cinema (quello buono d’essai e un po’ d’annata) perché pare di essere spettatori di un dramma o di una commedia dove chi legge, suo malgrado, è chiamato in causa per la facilità con cui è possibile immedesimarsi in determinate situazioni. È il caso del racconto La tempestività della pioggia dove la pioggia costituisce la linea di confine tra ciò che è considerato un elemento di sicurezza (l’essere all’asciutto) e ciò che è ritenuto elemento di caos (la mancanza di visibilità). E di nuovo Tondi, con un linguaggio che abbraccia la poesia, fa risentire nell’anima la tragicità dell’esistenza, il fatto di essere casualmente da una parte della barricata piuttosto che dall’altra, all’asciutto piuttosto che sotto la pioggia, l’incertezza che caratterizza ogni nostro passo nella vita ma che tuttavia esercita una potente fascinazione a cui è impossibile sottrarsi.

Intervista con l’autore: Romina Bramanti

Cari lettori, oggi abbiamo incontrato Romina Bramanti, nata e cresciuta in Versilia, scrittrice di prosa e poesia.

– Com’è nata la passione per la scrittura?

Da bambina mi sono accorta che esprimermi a parole non era il mio forte, vuoi per la timidezza, vuoi per il fatto che abitavo in aperta campagna ed ero circondata soprattutto da persone adulte. La poesia mi permetteva di esprimere quello che vedevo e sentivo. Non ho mai smesso!

– Sei scrittrice di prosa e poesia. Che differenza trovi tra i due linguaggi e in quale dei due preferisci esprimerti?

Diciamo che sto maturando molto nella prosa che ho abbracciato in questi ultimi anni, ma il grande amore della mia vita resta la poesia. Comunque mi sto divertendo a spaziare di genere in modo da confrontarmi con me stessa su più piani. Indubbiamente le differenze sono soprattutto nello spirito di chi scrive e di conseguenza di chi legge. Anche se ad oggi, personalmente, non trovo più una differenza netta nei due linguaggi, anzi nel testo di Euridice mi accorgo sempre più di aver usato molta poesia in modo da ‘costringere’ il lettore a scrutarsi dentro un po’ come la nostra cara ninfa!meta

– La tua fonte d’ispirazione?

Tutto. Tutto quello che mi circonda è da sempre un forte stimolo. Oggi cerco spesso di fondere insieme varie forme d’arte proprio perché lo stimolo che ricevo è talmente forte che non mi basta più la sola scrittura per cercare di esprimerlo. Non essendo né una musicista, né un’illustratrice, ricerco intorno a me, anime affini con le quali percorro un tragitto e con le quali riesco a esprimermi in maniera più forbita. Naturalmente il tutto solo per far sì che i lettori si sentano immersi in quel ‘tutto’ che riesce a stimolare le mie (e degli artisti che mi affiancano) emozioni e sentimenti.

– Parliamo del tuo ultimo libro pubblicato Euridice. Perché hai scelto un tema mitologico? Come lo hai sviluppato?

Euridice è un progetto che mi è stato commissionato dall’editrice della Bakemono Lab di Roma, Valentina Cestra. Praticamente ci siamo incontrate a Firenze e ha sottoposto a me e all’illustratrice Laura Bazzechi, la sua idea. Devo dire che da subito sia io che Laura abbiamo abbracciato il progetto con grande entusiasmo. Tornata a casa ho cercato tutti i testi del mito di Orfeo ed Euridice compresi testi teatrali, canzoni recenti o meno, quadri, descrizioni degli inferi e delle creature mitologiche che ne potevano fare da contorno. Di ogni elemento che colpiva la mia curiosità ho preso traccia e ho cercato di riportarlo nel testo. Inoltre, vista la particolarità, ho voluto che il lettore fosse catapultato direttamente nell’anima di Euridice, volevo che fosse un percorso e una visione tali che l’immedesimazione fosse imprescindibile. Ecco perché ho proposto l’utilizzo della prima persona. euri

– Altri progetti a cui collabori nel mondo della cultura?

Faccio parte dell’associazione culturale Nati per Scrivere che grazie al nostro presidente (Alessio Del Debbio) è presente praticamente su tutto il territorio: Roma, Torino, Milano, Sestri Levante, e naturalmente con diversi eventi sul territorio versiliese: un libro al tramonto e i venerdì letterari di villa Borbone giusto per citarne un paio. Sono membro del gruppo di artisti TOF (Testo Originale a Fronte) con il quale organizzo periodicamente rassegne poetiche e presentazione di autori di zona. Ideatrice del concorso fotografico letterario Bramanti #paroleinposa che è giunto alla sua terza edizione e che stiamo portando, grazie a Dark Zone nella persona di Francesca Pace, a livello nazionale inserendo anche molte novità. Ma non voglio svelare troppo!

– Idee per il futuro?

Dopo aver ripreso i diritti del mio romanzo ‘Il Custode dei Cuori’ sto provvedendo ad un editing radicale che spero mi porterà presto alla sua ripubblicazione naturalmente comprensiva del seguito già steso e pronto nel cassetto da un anno. Inoltre è prevista la stesura del terzo capitolo che però prevede una stesura a due mani con l’amica nonché autrice Linda Lercari. Poi chissà… idee tantissime!

– In breve, potresti descriverci i libri fino a questo momento da te pubblicati?

Il primo libro è stata la silloge ‘A cuore vivo’ edita Giovane Holden Edizioni nel 2013 a cui è seguito nel 2014 il romanzo onirico ‘Il Custode dei Cuori’ con la stessa casa editrice. Nel 2017 sono usciti due brevi racconti (‘Lui’ e ‘Interessante’ rispettivamente un noir e un erotico) sull’antologia Brevi Autori vol.4 dell’associazione Bravi Autori.it. Alla fine del 2017 ho auto pubblicato insieme all’illustratrice Chiara Chiozzi una nuova silloge intitolata ‘Metamorfosi del cuore’. A inizio 2018 la casa editrice Bakemono Lab ha pubblicato la mia ‘Euridice’.

– Un pensiero per i nostri lettori.

Leggere non è un reato. Ma anche se lo fosse ne varrebbe comunque la pena!

Se volete conoscere meglio “Metamorfosi del cuore”, qui troverete il link al booktrailer: https://www.youtube.com/watch?v=9GQwtw8NbKE

Grazie a Romina Bramanti per aver risposto alla nostra breve intervista. Alla prossima!

La vita contro la morte. “Notte inquieta” di Albrecht Goes

 

di Chiara Rantini

original-f25b59ac10dmagazine-notte-inquieta-albrecth-goes-notte-inquieta-13954553-1-ita-it-notte-inquieta-jpgAlbrecht Goes, Notte inquieta, Marcos y Marcos, Milano, 2011

Questa volta non recensisco un libro fresco di stampa. Notte inquieta è stato pubblicato nel 2011 dalla casa editrice Marcos y Marcos. Ha avuto moltissime traduzioni in tutto il mondo e in Italia è arrivato tardivamente, dopo che la BBC aveva già prodotto una pellicola su di esso.

Tuttavia, sottolineata la mancanza, è bene che si parli e si scriva su questo testo.

Romanzo breve o racconto lungo, Albrecht Goes portò in stampa la Notte inquieta nel 1950, pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. La Germania era a pezzi e in molti pensarono che fosse giunto il tempo della ricostruzione piuttosto che quello della riflessione. Goes fece eccezione e in poco più di 100 pagine raccontò “in una sola notte” tutto il male e la crudeltà della follia nazista, lasciando tuttavia aperto uno spiraglio alla speranza.

Ho voluto vivere come un essere umano per qualche settimana, ecco e ora la pago così. Questo era l’inizio. Anzi: il tema. Il titolo e la firma.

Così esordisce Baranowski, uno dei protagonisti del romanzo, accusato di diserzione dagli alti ufficiali dell’esercito tedesco e per questo condannato a morte senza neanche subire un processo. Un pastore protestante, cappellano sul fronte ucraino, condivide con questo soldato le poche ore  di vita che gli restano prima dell’esecuzione. All’interno di una stanza, nel pieno della guerra, dove tutt’intorno aleggia un’atmosfera di morte, questi due uomini aprono il loro cuore confessandosi a vicenda le atrocità e l’assenza di umanità nelle loro vite. Ho voluto vivere come un essere umano è una frase che va presa alla lettera. Baranowski, e come lui tutti gli altri soldati arruolati nella Wehrmacht, non hanno vissuto come esseri umani negli anni della guerra. A dire il vero, nel caso di Baranowski, neanche prima. Nella sua vita è sempre mancato uno spazio per l’amore, la dedizione, la compassione. Baranowski trova questa dimensione soltanto nel brevissimo arco di tempo che vive da disertore. Fuggiasco, mescolato con i partigiani ucraini, non sceglie di tradire la patria per una questione politica. La sua scelta è superiore ed è di carattere etico. Ma quale era stata la “colpa” di Baranowski? Mentre era in missione, si era innamorato di una donna ucraina rimasta vedova e con un figlio piccolo. L’esperienza del dolore altrui e dell’abbandono risvegliano in lui sentimenti umani talmente forti da renderlo indifferente al pericolo. Non è la lunghezza della vita ma la qualità, lo spessore ad avere la priorità.

Il pastore protestante (alias Goes), per quanto non sia coinvolto nel reato di diserzione, sente una profonda corrispondenza con il condannato. Anche lui, quale uomo religioso, vive la schizofrenia di una vita divisa tra un codice etico e spirituale ben preciso e la realtà dei fatti. Malgrado ciò, l’incontro con l’umanità, con il calore dei sentimenti, con la fragilità e allo stesso tempo con la forza interiore insita nell’esistenza del condannato, fa di esso comunque un testimone della possibile vittoria della vita sulla morte. Il bacio del condannato e la sua ricerca della mano del pastore prima di morire sono i vessilli di questa vittoria. Goes, a tale proposito, scrive uno dei brani più belli di tutto il libro:

Con incertezza cercava la mia mano senza quel senso del tatto che hanno i ciechi. Gliela strinsi, con calma e con forza. Meglio così. Come servo del Vangelo – per questo ero stato chiamato qui – dimostrai quale fosse il mio posto: dalla parte dei vinti. La verità del Vangelo o la follia del mondo, la sua ironia e il suo furore. Testimoniai di quella realtà.

Intrecciata alla vicenda di Baranowski, vi è la storia d’amore di un ufficiale, Brentano, prossimo a raggiungere il fronte di Stalingrado. Brentano si rifugia nella camera del pastore implorandolo di permettergli di avere un incontro segreto con la fidanzata Melanie, prima della partenza. Melanie e Brentano sanno che quella notte inquieta sarà la loro ultima notte perché le probabilità di ritorno dal fronte russo sono pressoché nulle. Tuttavia, come nel caso di Baranowski, mentre fuori sta in agguato la morte, nella piccola stanza del pastore, trionfa la vita. Nel silenzio della notte, i due amanti si scambiano le ultime, sofferte parole d’amore in un crescendo che pare una melodia.

«Ancora sei ore.» E poi (una voce) ancora più sommessa: «Ancora sei attimi.» E l’altra voce (…): «Ancora sei anni.» Questa è la dolcezza dell’amore: le ore diventano anni. E questa è la saggezza dell’amore: l’attimo si fa lungo come un anno. Hanno una notte sola quei due. Ma vuol dire per sempre.

La vita dunque, sebbene per pochi attimi, dimostra di essere più forte e più vera della morte perché il tempo della vita è eterno mentre la finititudine appartiene unicamente alla morte.

Nel 1953 Albrecht Goes lasciò l’abito talare per dedicarsi interamente alla scrittura. Questo resta però il suo testo più interessante, maturo, profondo.

Buona lettura!