PASSAGGIO A SUD, un cammino lungo l’Appennino

passaggioAntonio Gonnella, Passaggio a sud, Ali&noeditrice, Perugia, 2019

recensione di Chiara Rantini

Nel cammino risiede la gentilezza, il cammino è un atto pacifico, la lentezza permette la comprensione, la conoscenza. In un mondo che fa della velocità un vanto, il cammino è un vero atto politico, dirompente, per molti disarmante, è un’azione rivoluzionaria. Il cammino è cambiamento profondo, il proprio.

Basterebbe fermarsi qui, meditando queste parole, per capire che affrontare un cammino non è esaudire un capriccio bensì un qualcosa che nasce prima dal cuore, dalla mente e infine si rende concreto sulla strada. Ed è proprio con questo spirito che Antonio Gonnella costruisce il suo cammino che dalle Marche lo conduce a sud, fino in Irpinia.

Nelle pagine introduttive di Passaggio a sud, Antonio parla di sé, del suo innato amore per la montagna, della curiosità giovanile che lo ha portato a confrontarsi con le maestose Alpi, maestose ma incredibilmente lontane dal suo cuore. L’Appennino, questa variopinta cordigliera che attraversa l’Italia da nord a sud, Antonio lo ha sempre davanti (abita in Toscana, nel Valdarno, per quanto le sue origini siano pugliesi) e irresistibilmente chiama. Così dopo aver percorso il Tratturo Magno, da L’Aquila a Foggia, sulle antiche vie della transumanza, nasce l’idea di continuare a vivere l’Appennino, a dispetto di coloro che lo abbandonano ogni giorno di più. Parte a luglio del 2017, destinazione Marche. Ovunque passa trova tracce del sisma del 24 agosto 2016: le città sono deserte ma gli abitanti non hanno perso la voglia di lottare e ogni giorno, per quanto sfollati in riviera, tornano nei loro paesi per farli rivivere con il lavoro in una sorta di “pendolarismo al contrario”. Fatica e sudore, questo è sempre stato l’Appennino per chi da millenni ci è vissuto e continua ostinatamente a viverci. Un luogo per conoscerlo, lo devi camminare, afferma Antonio scrivendo una grande verità perché per amare un territorio è necessario percorrerlo, prenderne possesso con lo sguardo, toccare la sua terra, aspirare il profumo dei suoi boschi e delle sue praterie, in modo quasi ferino, perché l’attaccamento e quindi il radicamento nascono da una relazione che non può essere assolutamente virtuale.

Questo è un libro che unisce gli italiani, così divisi da insulsi campanilismi, e fa dell’Appennino la comunità per eccellenza, il luogo del bene comune dove tutti si aiutano e rispettano l’ambiente in cui vivono. Sembra che la storia con la esse maiuscola non sia passata di qui e invece si scopre che, anche nei piccoli centri montani, ci sono vestigia dell’insediamento di antichissimi popoli, perlopiù genti dimenticate perché schiacciate e inglobate dai grandi imperi. Parlando di questo, Antonio ha continuato il suo cammino in Abruzzo, anch’esso martoriato dal sisma del 2009. Terra di parchi, di bellezze naturalistiche e artistiche di grandissimo spessore, è il luogo dove sono evidenti gli effetti del cambiamento climatico. Il ghiacciaio del Gran Sasso sta scomparendo, il dissesto idrogeologico avanza e tragedie come quella di Rigopiano sono la naturale conseguenza. Non è più solo una questione di difesa dell’ambiente, ma come scrive Antonio una questione di sopravvivenza. Non tanto per noi, quanto per le prossime generazioni a cui lasceremo un ambiente divenuto invivibile. Ecco allora che un cammino diviene un segno, un grido di protesta e di ribellione a questo stato di cose che moti danno per irreversibile, cullandosi nella propria incapacità di reazione. Camminare e non viaggiare, conoscere e non vedere superficialmente, prima che esperienze sono scelte di vita dettate da un’etica ben precisa. Non basta di dire “no”: i “no” vanno praticati e resi visibili a tutti. Passaggio a sud è un libro ricco di spunti da questo punto di vista e infatti molte delle sue pagine sono occupate da interessanti approfondimenti su vari aspetti del territorio: dallo smantellamento del Corpo Forestale alla banda del Matese, approfondimenti necessari per contestualizzare questo percorso.

E arriviamo all’ultima parte del Cammino. Antonio giunge in Molise, terra di emigrazione per eccellenza: emigrazione interna ed esterna. Qui, qualcuno è tornato e più di coloro che non sono mai dovuti andare via, sa quanto è importante l’accoglienza. Antonio e Francesca vengono accolti come un tempo venivano accolti i viandanti, i pellegrini che per vari motivi, religiosi o lavorativi, avevano lasciato le proprie case, avventurandosi in luoghi lontani spesso senza avere un soldo in tasca, facendo affidamento sulla generosità e l’ospitalità dei popoli appenninici. La solidarietà dimostrata da queste genti di montagna è un altro tratto comune, come lo sono le faggete e la cultura alimentare legata alla pastorizia e alla coltivazione del castagno. Ma la montagna non è solo un bucolico idillio. La montagna e quindi l’Appennino, soffrono ( e più si scende a sud, maggiore è la sofferenza) per il disinteresse della politica verso le attività economiche locali, come l’agricoltura e la pastorizia. Incontrando le persone, parlando di questa terra, Antonio dà voce a questa silenziosa protesta che non perde mai il carattere dignitoso che è proprio dei suoi abitanti. Ecco allora che i volti delle donne e degli uomini che lottano ogni giorno perché venga riconosciuto il valore del loro lavoro (viticoltori, pastori, boscaioli) divengono delle immagini di resistenza verso le quali è difficile restare indifferenti. Dopo il Sannio, il cammino giunge alla meta: Irpinia, terra di sismi mai dimenticati, di ricostruzioni mai finite e terra di lupi.

Si dice che nel lupo l’uomo veda se stesso. Probabilmente è vero anche il contrario, che lo sguardo profondo del lupo sia fatto per scrutare e leggere le cose più nascoste che sono dentro di noi, così scrive Nazzarena Luchetti, contribuendo alla buona riuscita del libro di Gonnella. I lupi sono un altro elemento unificante degli Appennini e sono il segno di una possibilità di sopravvivenza, perché nell’età della decrescita felice, ciò di cui si deve occupare l’uomo non risponde alla parola “progresso”. Sopravvivenza, umanità, rispetto e solidarietà sono i concetti chiave in un’epoca che non può più aspettare il tempo delle ideologie.

Passaggio a sud è questo tentativo e un atto di amore per il nostro paese.

Nel segno della falsificazione storica

 


di Daniele Marletta

Catherine Nixey, Nel nome della croce. La distruzione del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018

Un libro dal titolo commercialmente accattivante, ma che è nei contenuti addirittura peggiore delle aspettative. Nel risvolto di copertina si dice che chi lo ha scritto avrebbe studiato “Storia e Letteratura Classica a Cambridge”, e questo ci fa rivalutare i tanto disprezzati atenei italiani. Il libro, caso raro, sa essere insieme pedante e pedestre: cita un dovizioso numero di fonti, mescolandole però tra loro, e soprattutto confondendo spesso (volutamente?) le fonti tardoantiche con le tardomedievali, in un potpourri di frasi fatte, luoghi comuni, veri e propri travisamenti. Un profluvio di citazioni decontestualizzate e di improbabili aneddoti fatti passare per verità storiche inoppugnabili.

Il libro si apre con la narrazione a tinte fosche della spoliazione e distruzione del Tempio di Atena a Palmira nell’anno 385, e di simili narrazioni è costellato in quasi tutti i capitoli. L’autrice vuole forse mostrare visivamente nella distruzione dei templi la distruzione dell’Era Classica stessa, dimenticando però un fatto essenziale a cui sarà bene fare accenno. Noi uomini del XXI secolo siamo abituati a vedere nella distruzione dei templi un certo fanatismo, soprattutto islamico: vengono in mente, in particolare le grandi statue del Buddha distrutte in Afghanistan dai talebani, o, in anni più recenti, l’operato dell’Isis in Medio Oriente. In effetti, a leggere questo libro, sembra che l’intento dell’autrice sia più che altro quello di mostrare che i cristiani della tarda antichità e del medioevo si sono mostrati fanatici allo stesso livello. L’autrice dimentica forse che il Cristianesimo non si è diffuso nel XXI secolo e che la distruzione del Tempio di Atena a Palmira risale a un’epoca in cui distruggere e depredare i templi altrui era considerato perfettamente normale. Gli stessi romani (la cui tolleranza e civiltà vengono ampiamente decantate nel corso del libro) lo fecero parecchie volte. Ancora oggi gli ebrei di Gerusalemme pregano presso il “Muro del Pianto”, ciò che rimane del loro grande Tempio distrutto e spogliato dei suoi tesori nel 70 d.C. da quel Tito che Svetonio ebbe a definire “amore e delizia del genere umano”. Era il cosiddetto “Secondo Tempio”: il primo, il Tempio di Salomone, era stato distrutto da Nabucodonosor nel 586 a.C.
Per quanto riguarda il rispetto per i templi altrui (ed è tutto quello che il libro riesce effettivamente a dimostrare) i cristiani non seppero essere al di sopra dei loro contemporanei. Fu una colpa? Dal loro punto di vista certamente sì, dal punto di vista dei contemporanei non fu né colpa né merito. Tutto il libro, per il rimanente, segue questa falsariga: si accusano i cristiani di cose che facevano anche i “classici”.

A questo punto è necessario porsi una domanda e fare una riflessione: come mai è tanto di moda il disprezzo del Cristianesimo? Viviamo, ed è sotto gli occhi di tutti, in un’epoca che si pone a tutti gli effetti come post-cristiana. In quasi tutto il mondo occidentale sono in vigore leggi assolutamente contrarie all’ethos cristiano (aborto ed eutanasia, tra le altre). I simboli cristiani spariscono dalle scuole, dagli ospedali e dagli altri luoghi pubblici. Le chiese si spopolano sempre più. Per molti versi si può dire che al mondo occidentale di cristiano non sia rimasto che il nome. Resta comunque il fatto che il Cristianesimo ha svolto un ruolo fondamentale proprio nella formazione di quella che chiamiamo “civiltà occidentale”, ed è un ruolo che è stato indubitabilmente positivo. Per intenderci, anche un documento come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ha dei principi ispiratori cristiani. Cose come la “libertà individuale” o la “libertà di pensiero” sono state teorizzate in un mondo che si professava cristiano, non islamico o buddista.. Ciononostante, misconoscere il ruolo del Cristianesimo nella nostra cultura è un atteggiamento sempre più frequente. Gli intellettuali, per vezzo o per convinzione, tendono sempre più a dichiararsi “laici”, e i pochi che continuano a dichiararsi cristiani sono spesso ridicolizzati o emarginati. I giornalisti (o gli storici dell’arte come la signora Nixey) prestati alla divulgazione storica si dedicano con certosina pazienza al compito di screditare la fede cristiana e la storia del Cristianesimo.

Per chiunque abbia fatto studi storici seri la verità storica è ben diversa da quella presentata in questo libro. La Civiltà Classica non fu affatto distrutta dai cristiani (che al contrario la conservarono in varie forme, sia culturali che istituzionali). Certo, la storia del Cristianesimo non è stata tutta “rose e fiori”, non sono mancate la pagine oscure. Non furono i cristiani, però, a distruggere il mondo classico. Questo, molto più semplicemente, morì di morte naturale, con l’implosione della parte occidentale dell’Impero Romano, per continuare a vivere ancora per qualche secolo (sebbene in forma modificata) nella parte orientale. Può sembrare un paradosso, o magari uno strano segno dei tempi, ma il fatto è che in una cultura come la nostra, sempre pronta a idolatrare l’oggettività scientifica, solo per la fede cristiana si faccia deroga a tale oggettività.

UN PARADISO PER ICARO di Chiara Rantini – riflessioni di Gabriella Becherelli

cover paradisoChiara Rantini, Un paradiso per Icaro, Alter Affluenti Poesia, Ed. Ensemble, Roma, 2018

Dalla notte dei tempi i miti ancora oggi raccontano la nostra essenza, il nostro modo di essere e di affrontare la vita. Icaro rappresenta l’impulso primordiale di salvezza, un forte anelito verso il desiderio di libertà, incarna quello slancio vitale così forte e prorompente che non conosce la via di mezzo. Icaro è caduto in volo per troppo entusiasmo, la stella suprema con il suo calore ha sciolto le sue ali di cera facendolo precipitare e morire. La sua buona intenzione però merita comunque un paradiso, un luogo di pace per ritrovare se stesso nell’armonia. Il titolo di questa silloge di poesie di Chiara Rantini è perfetto, perché il suo modo di fare poesia dona a Icaro un paradiso, attraverso la compassione. Lei rappresenta il suo volo dolcemente sopra i luoghi che portano gradatamente verso il cielo. Il suo percorso è svolgimento necessario, ragionamento amorevole che sfiora le cose e non le travolge. E’ componimento ponderato e sentimentale, formato da dettagli determinanti e forti per comprenderne meglio l’ essenza. La sua compassione esistenziale la guida sempre e la spinge con delicatezza a guardarsi intorno, poi sosta e regala sul filo della malinconia quel paradiso di liberazione. I suoi testi trattengono le emozioni, in seguito le libera con discrezione e rispetto verso quei sentimenti che potrebbero travolgere.

icaro

Prosegue nel viaggio delle pure emozioni guidate dal tempo, che prende forma sul nostro modo di intenderlo. Lei pratica la poesia, nella semplificazione dell’ascolto, dell’osservazione profonda che dall’esterno s’inoltra nell’interiorità. “Partenze” e “Ritorni”, sono i primi due titoli della silloge, fanno parte del suo percorso dentro la natura, presenza costante nei sentimenti del divenire. L’Atman è lontano e privo di confini ma si può intuire ,sentire, respirare attraverso la natura del vivere, attraverso i fenomeni. L’Atman non ha ali di cera, è volo immobile che si manifesta costantemente e fa parte della nostra esistenza sulla terra rossa. Dopo un lungo viaggio rimangono i “Fragmenta”, la parti più preziose, da cui attingere in contemplazione.

Un dono definito nelle tinte del ricordo, da cui Icaro può trovare il suo paradiso.

Gabriella Becherelli

 

 

Vederci doppio

Recensione di Chiara Rantini

Mirko Tondi, Vederci doppio, Robin edizioni, Torino, 2018

 

vederci doppioAccolgo con grandissimo entusiasmo questa nuova fatica letteraria di Mirko Tondi. Questa volta non si tratta di un romanzo ma di una raccolta di racconti molto singolare.

Quarantadue racconti divisi in blocchi e alternati da trilogie tematiche. Mirko Tondi propone al lettore qualcosa di nuovo anche nella struttura e nella fruibilità. Sì, perché, come l’autore stesso scrive nella breve prefazione, questi racconti, nati nel corso di sette anni in situazioni spesso fortuite e non proprio canoniche, andrebbero letti ovunque, in ogni luogo, anche il più bizzarro. E certo per la loro brevità e intensità si prestano bene a questo tipo di operazione. Ma pur, leggendoli singolarmente e in tempi diversi, occorre non perdere di vista il tema che li racchiude. Lo si evince chiaramente dal titolo.

“Vederci doppio” significa non considerare un unico piano della realtà.

Come gli scrittori sanno bene, quella che ci appare come l’autenticità dei fatti, di solito, è il frutto di una visione univoca. Scrivere aiuta a rendere la vista più acuta e capace di muoversi a 360 gradi. Perciò, i protagonisti dei racconti narrati in questa raccolta, in prima e in terza persona, vivono e riflettono questo sfasamento della realtà. Si presentano in un determinato modo ma potrebbero essere anche tutt’altro.

Visioni, incubi, situazioni oniriche conducono il lettore in un universo immaginario dove i confini tra la ragione e la follia vanno a braccetto. E tuttavia, per quanto in modo ironico e talvolta sarcastico, tra le pagine di questo libro si affrontano temi importanti come, ad esempio, la ricerca di una possibile convivenza pacifica (Mormorii e tenebre) o il senso di incompletezza che caratterizza l’uomo e il suo paradossale amore per questa condizione di “mancanza”.

Scrive Mirko, a tale proposito, nel racconto Caffè sul gas, uno dei più belli di questa raccolta:

Ho sempre amato i corpi imperfetti, i cieli nuvolosi, i dipinti astratti e i film col finale aperto; ho sempre amato ciò che era in divenire, la sua parvenza di sorprendente mutevolezza. Questa staticità dalle solida fondamenta invece mi blocca qua, tra i muri bianchi e vuoti di casa mia, dove avrei potuto appendere quadri e mensole, foto e poster, ma dove non ho messo niente, perché è più che mai vero che la propria casa riflette se stessi, e noi siamo incompleti, entrambi.

Atmosfere kafkiane si respirano in molti testi come, ad esempio, in Tutto si risolverà per il peggio, dove Mirko sembra divertirsi a provocare il lettore dialogando con esso su bizzarre storie a finale tragi-comico, toccando note di un sarcasmo auto-distruttivo di notevole spessore e che non può non richiamare alla mente anche altri autori della letteratura anglo-americana.

Leggendo questi racconti, spesso si ha la sensazione di trovarsi a teatro o al cinema (quello buono d’essai e un po’ d’annata) perché pare di essere spettatori di un dramma o di una commedia dove chi legge, suo malgrado, è chiamato in causa per la facilità con cui è possibile immedesimarsi in determinate situazioni. È il caso del racconto La tempestività della pioggia dove la pioggia costituisce la linea di confine tra ciò che è considerato un elemento di sicurezza (l’essere all’asciutto) e ciò che è ritenuto elemento di caos (la mancanza di visibilità). E di nuovo Tondi, con un linguaggio che abbraccia la poesia, fa risentire nell’anima la tragicità dell’esistenza, il fatto di essere casualmente da una parte della barricata piuttosto che dall’altra, all’asciutto piuttosto che sotto la pioggia, l’incertezza che caratterizza ogni nostro passo nella vita ma che tuttavia esercita una potente fascinazione a cui è impossibile sottrarsi.

LA BELLEZZA CHE NON POSSIAMO SOPPORTARE. Pensieri sparsi sulla poesia di Alberto Blanco

radicedi Chiara Rantini

Alberto Blanco, La radice quadrata del cielo, Ensemble ed., Roma, 2017

Ho avuto la fortuna di incontrare Alberto Blanco, poeta messicano molto noto all’estero e ora pubblicato in Italia da Ensemble, a maggio di quest’anno nell’ambito della presentazione, al Caffè letterario Le Murate di Firenze, del suo libro “La radice quadrata del cielo”.

Classe 1951, laureato in chimica, sinologo e studioso di filosofia del linguaggio, Blanco è approdato alla poesia con la stessa semplicità e naturalezza che sono proprie della sua arte.

La sua infatti è una poetica dell’essenzialità, della precisione ed esattezza geometrica, di un’architettura sobria e perfetta in cui razionale e irrazionale, mente e spirito si muovono in totale armonia.

La raccolta si apre con una Dichiarazione dei principi in cui Blanco presenta se stesso. Si definisce un uomo di scienza ma non per questo ha la pretesa di fare del suo pensiero un postulato universale. Ogni scienziato ha le equazioni che si merita, e con ciò Blanco predispone il lettore ad accogliere visioni divergenti su ciò che potrebbe sembrare indiscutibile come il fatto che 1+1 = 2. Stabilito questo principio di “umiltà”, il libro si articola in tre parti: Lezioni di geometria, Teorie e Mappe. Leggendo i titoli delle sezioni, il lettore potrebbe pensare di avere tra le mani un testo che affronta temi astratti, freddi, lontani dalla vita umana. Non è così.

La voce di Blanco, che possiede la forza della parola profetica, parla dell’uomo all’uomo. Innanzitutto, in modo asciutto e immediato, ci ricorda un fatto fondamentale: il nostro essere qui nel mondo.

Non abbiamo altro corpo.

Siamo qui.

Solo qui.

Qui

(Teoria dello spazio)

 

Siamo dunque in questo mondo e siamo sottoposti alle leggi della fisica e tuttavia il nostro essere è un paradosso e un’eccezione rispetto al fatto che

tutto tende al disordine

tranne la nostra vita

(Prima teoria termodinamica)

 

blancoCiò che si avverte sin da una prima lettura è l’idea che la vita umana è qualcosa di irripetibile, di prezioso di cui il poeta non può fare altro che prendersene cura tramite l’uso di una parola purificata, ripulita dai sottofondi e dai volumi impazziti della nostra società urlante.

Quanto dolore possono sopportare le parole (storpiate, deturpate, violentate), si chiede Blanco? Ecco allora che il poeta interviene sul linguaggio, lo accoglie nella sua casa, lo nutre e, una volta salvato, lo restituisce come medicamento ad una società malata. Da ciò nasce la parola poetica, frammentario segmento rivolto alla vita.

Nelle mappe non si è percorso nulla.

Nella poesia non c’è nulla di scritto.

(VIII mappa)

 

Così, la poesia, pur non percorrendo uno spazio preciso, è movimento, un movimento rapidissimo che ci tocca interiormente senza lasciare traccia della sua traiettoria.

Le poesie sono rapidissime.

Non possiamo conoscere – allo stesso tempo – la loro forma e il loro contenuto.

E se conosciamo la forma di una poesia

mai sapremo esattamente

di cosa parla.

(Teoria dell’incertezza)

e ancora, secondo la teoria quantistica

può esistere movimento

senza traiettoria, senza percorso e senza orbita.

O almeno, senza un cammino noto

e – ciò che è più importante –

senza un cammino che si possa conoscere.

Non è questo la poesia?

(Teoria quantistica)

 

Dunque, rispetto a questa inconoscibilità della materia poetica, cosa ne è dell’uomo, del poeta stesso che è qui, in un mondo regolato da leggi fisiche e matematiche? È forse condannato ad un’esistenza schizofrenica? Blanco sembra rispondere a questo interrogativo e lo fa proprio a partire dalla geometria.

Qui si lotta e si sa, si ama e si tace, scrive nella Quarta lezione di geometria perché il nostro corpo occupa un volume, anzi è un volume e come tale ha un numero infinito di punti (Seconda teoria di geometria). E dato che il corpo umano ha in sé la qualità dell’infinito, è chiaro che non esiste separazione tra esso e la poesia.

Potrei dilungarmi ancora su ogni singola parola di questa raccolta poetica perché in ognuna si troverebbe un seme da cui far germogliare un albero di concetti, ma lascio al lettore l’emozione della scoperta.

Vorrei dedicare la conclusione di questa breve recensione all’ultima parte del libro (Mappe) svestendo i panni della blogger per indossare quelli della persona umana la cui sensibilità è stata risvegliata da immagini, evocate dal poeta, che hanno fanno parte di un proprio vissuto interiore. Chi mi conosce, sa quanto sono appassionata di mappe, reticolati geografici, cartine escursionistiche e simili. È una passione che mi riconduce all’infanzia e ai tanti mondi immaginari che si materializzavano per me nei grafici delle mappe. Non voglio aggiungere altro, sperando soltanto che altri lettori possano cogliere l’emozione che mi ha dato la lettura di questi versi:

Che cosa sono i colori di una mappa se non un sogno?

Il ricordo anestetizzato della nostra infanzia.

Le finestre aperte nell’ufficio del cartografo.

Una sorgente della più pura e semplice felicità.

(VII Mappa)

Illusione e dissolvenza di un mondo. Un romanzo di Kjell Westö.

miraggio 1938di Chiara Rantini

Kjell Westö, Miraggio 1938, Iperborea, Milano, 2017

Siamo nel 1938. I delicati equilibri europei stanno per crollare sotto la spinta del furore nazista. La Finlandia come altri stati del Vecchio Continente geograficamente lontani dai confini tedeschi sembra oscillare tra due posizioni opposte: da una parte una minoranza della popolazione esprime la condanna e il timore di un pericolo imminente per la pace mondiale, dall’altra parte una fetta importante della società condivide l’entusiasmo quasi estatico per la politica della “forza” teutonica come unico baluardo contro la minaccia staliniana.

Non sono passati molti anni dal tempo in cui la Finlandia era scivolata in una silenziosa guerra civile, dove la contrapposizione tra “Bianchi” conservatori sostenuti dall’aristocrazia tedesca, svedese e del Baltico e “Rossi” che credevano nella rivoluzione popolare, aveva creato una frattura nella società e determinato conseguenze molto gravi. Dopo la vittoria dei “Bianchi”, furono istituiti dei campi di prigionia per coloro che si erano schierati dalla parte “rossa” e ci vollero alcuni anni perché le persecuzioni cessassero.

Era il 1918. Vent’anni dopo Matilda, la protagonista femminile del romanzo, sconta sul proprio corpo e nella propria mente le ferite subite nei campi di prigionia. Apparentemente sembra che la vita abbia preso per lei una svolta positiva. Vive in un decoroso appartamento alla periferia di Helsinki, ha un ottimo lavoro come segretaria presso lo studio dell’avvocato Thune e nel tempo libero coltiva la passione per il cinema. Eppure continuano ad esistere delle ombre dentro di lei che si manifestano in uno sdoppiamento della personalità. Da una parte Matilda, l’ordinata e precisa segretaria, e dall’altra la signorina Milja, la giovane poco più che adolescente che aveva subito violenza nel campo di prigionia.

Ben altra è la figura dell’avvocato. Thune è sempre vissuto negli agi e la guerra civile del 1918 lo ha appena sfiorato durante i convulsi e goliardici anni di vita universitaria. A quarant’anni è ancora un irriducibile idealista, forse soltanto un po’ ingenuo. Vicende personali e storiche attraversano la vita dei protagonisti del romanzo fino a raggiungere un punto culminante in cui la speranza in un mondo migliore, il “miraggio” sognato appunto da Thune, viene totalmente a mancare. Le ombre nere della storia stanno per avere il sopravvento su tutto e il doppio omicidio-suicidio narrato nell’epilogo ne è in un certo senso il presagio.

Tra documentazione storica e romanzo psicologico-intimistico, questa unica prova letteraria di Kjell Westö tradotta in italiano conquista il lettore a poco a poco con un crescendo che riecheggia l’atmosfera irreale e decadente di una Helsinki divisa e ferita.

 

“Forse è uno dei difetti della realtà, questo doverla sempre ritoccare anche quando è al massimo del suo splendore. (…) Oppure il difetto non sta nella realtà ma in noi stessi. Possibile che siamo noi a non fidarci mai dell’esistenza e della tenuta della bellezza?”

 

Viveva in un’epoca crudele. La minaccia di violenze e guerra era palpabile ogni giorno e si insinuava nella gente come un batterio facendo diventare grigie e malate le persone di coscienza, mentre quelle senza scrupoli prosperavano.”

Rimase lì nella mattina di novembre gelida e trasparente come ghiaccio e pensò che il mondo che conosceva e per il quale aveva nutrito tante speranze si era dissolto nel nulla: forse non c’era mai stato?”

 

KYRÖ E L’ANNO DEL CONIGLIO

anno del conigliodi Chiara Rantini

Tuomas Kyrö, L’anno del coniglio, Iperborea, Milano, 2013

Ho conosciuto Tuomas Kyrö, classe 1974, al Pisa Book Festival in occasione della presentazione del suo libro L’anno del coniglio, primo romanzo dell’autore finlandese pubblicato in Italia. È entrato nella grande sala accompagnato dalla traduttrice camminando a passi veloci. Raggiunta la poltrona, si è guardato attorno con aria timida quasi stupendosi di avere davanti una platea così numerosa. Quando è cominciata la conferenza, gli sono state poste molte domande sul libro e sulla società finlandese. È stato molto interessante ascoltarlo per capire quanta fosse la distanza tra la cultura latina a cui apparteniamo e quella nordica, propria dei paesi scandinavi. Precisando che la Finlandia è un po’ un’eccezione rispetto agli altri paesi della penisola come Norvegia e Svezia, mi sono accorta che tutto sommato le differenze si vedono e si sentono solo se non ci limitiamo a considerare gli aspetti superficiali della vita e della cultura di una nazione. Il sistema economico capitalista ha omologato tutto l’Occidente e quando qualcuno tra il pubblico ha chiesto a Kyrö se il suo libro avrebbe potuto vedere la luce anche in un qualsiasi altro paese europeo, ha risposto affermativamente. Ma, attenzione, qui entra in gioco la bravura dell’autore nel caratterizzare i personaggi con tutte le loro peculiarità finlandesi. E di bravura, in questo senso, Kyrö ne ha avuta molta. Di fatto, il romanzo narra le vicende un po’ picaresche e amare di Vatanescu, clandestino fuggito da una Romania povera e senza prospettive nel tentativo di sbarcare il lunario nel ricco Occidente e precisamente in Finlandia. Disgraziatamente finisce però nelle mani di un losco personaggio ex-agente del KGB russo che ha pensato bene di cambiare mestiere guadagnando sullo sfruttamento dei malcapitati mendicanti di cui si fa, a parole, garante. Cominciano così le disavventure di Vatanescu attraverso le città e gli infiniti spazi della Lapponia.

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L’autore al Pisa Book Festival del 2017

Il tono del romanzo, pur toccando un argomento molto sentito come quello dell’immigrazione, non è mai tragico né moraleggiante. Kyrö si limita ad usare l’ironia per smascherare tutte le ipocrisie del mondo occidentale, dal burocratismo dietro al quale parte della società si nasconde per non dover giustificare il proprio comportamento razzista e classista, al finto “buonismo”, al finto “ambientalismo” che non sa riconoscere le priorità dell’individuo rispetto alla tutela dell’ambiente. Tra i tanti personaggi, solo i più poveri e gli emarginati mantengono una loro autenticità, una purezza di pasoliniana memoria. Come una bella favola, il romanzo si chiude con il superamento di ogni difficoltà da parte di Vatanescu che ottiene la sua rivincita sulle tante umiliazioni raggiungendo l’obiettivo per il quale si era dato alla clandestinità: comprare un paio di scarpe da calcio per il proprio figlio Miklos. E, con questo “happy end”, noi non possiamo altro che augurarci che ci siano presto nuove traduzioni dei libri di Kyrö. Kiitos Tuomas!

 

Solitudini montane. Tre racconti nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi.

di Chiara Rantini

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P. Ciampi, M. Vichi, P. Zannoner, La foresta del silenzio. In bicicletta nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Ediciclo ed., Portogruaro (VE), 2017.

Tre scrittori toscani narrano in questo libro il loro approccio ad uno dei luoghi più belli d’Italia. Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi è il grande protagonista di ciascuno di questi racconti. Lasciarsi coinvolgere dalla bellezza delle descrizioni e dalle sensazioni suscitate dal paesaggio è un tutt’uno con la lettura di questo breve testo di una centinaia di pagine. Pur nella loro diversità e originalità, le voci narranti sono accomunate dalla volontà di scoprire questo territorio aspro e selvaggio in ogni suo aspetto storico, culturale, sociale senza mai rinunciare però al proprio punto di vista, a ciò che emotivamente porta con sé l’esperienza del viaggio in bicicletta. Anche la scelta del mezzo tramite il quale esplorare un luogo ha infatti la sua importanza. Pur nutrendo inizialmente una certa diffidenza verso la cosiddetta e-bike, ovvero la bici con la pedalata assistita, i tre scrittori hanno saputo cogliere le particolarità del parco: prima fra tutte la dimensione del silenzio e della solitudine dei grandi spazi boscosi che si estendono da una parte all’altra del crinale tosco-romagnolo. Solo nella dimensione del silenzio, a cui gli abitanti delle città sono così poco avvezzi, infatti è possibile ascoltare le voci della natura e di chi da secoli ha lasciato una traccia nella storia. Abitanti silenziosi che contribuirono alla bellezza del luogo con il loro lavoro come, ad esempio, i monaci camaldolesi o l’amministratore forestale granducale Karl Siemon che lasciò la nativa Praga per trasferirsi tra questi boschi senza più fare ritorno in patria. A queste voci illustri si aggiungono quelle di coloro che abitando questi luoghi ne hanno raccontato, perlopiù in forma orale, le tradizioni e i segreti. Storie che si sono tramandate di generazione in generazione e che, nell’Ottocento, Emma Perodi raccolse nella sua goticheggiante raccolta di “racconti casentinesi”. Così anche per il lettore sarà facile navigare sulle pure acque del lago di Ridracoli seguendo il racconto di Paolo Ciampi, avventurarsi nelle pieghe della storia di questa antica terra ascoltando la voce di Paola Zannoner e magari sognare un’avventura fantastica popolata di fantasmi e apparizioni sui passi della narrazione di Marco Vichi.

Ed ora, per dare un assaggio di lettura, ecco qui tre piccoli estratti:

Il bosco fa di tutto per mettermi a suo agio. In questo preciso istante, ore tre del pomeriggio, non c’è uomo di città che possa invidiarmi. Ma soprattutto sono amici, gli alberi. Si fanno avanti in punta di piedi e portano in dono il loro silenzio. (Paolo Ciampi)

Il sole era già alto e scacciava i fantasmi. Presi una stradina secondaria che portava verso Badia Prataglia. La solitudine toglieva le briglie al pensiero, che si sentiva libero di girellare dove gli pareva accavallando ricordi, immaginazioni e sogni, come nei romanzi più belli. (Marco Vichi)

Qui, invece, è tutto a portata di mano. Per esempio, ora gli alberi sono carichi di ciliegie, mature al punto giusto, appena un po’ aspre. Le mangi e torni bambina al paese di nonna. (Paola Zannoner)

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Wilderness e vita

l. weller Wildernessdi Chiara  Rantini

Lance Weller, Wilderness, Keller editore, Rovereto (TN), 2016

Abel Truman è un uomo anziano, reduce dalla battaglia della Wilderness che contrappose gli stati del Sud contro quelli del Nord nella guerra di secessione americana. Vive in completa solitudine sulla costa settentrionale del Pacifico in una baracca di legno insieme ad un cane che si è smarrito nella foresta. La sua esistenza precaria fatta di amari ricordi e di persone perdute nell’orrore della guerra viene sconvolta dall’incontro con due avventurieri che, nella notte, gli rubano il suo fedele compagno di vita. Abel, disperato, si mette sulle loro tracce inoltrandosi nella foresta verso le alte montagne. Più volte aggredito e quasi sul punto di morire, viene soccorso da una coppia che vive isolata nel bosco per difendersi dalle offese del razzismo. Nella loro casa, Abel ritrova il proprio cane anche lui salvato dalla stessa coppia di sposi. Abel potrebbe mettere fine alla sua vita errabonda e trascorrere la vecchiaia in pace ma non prima di aver portato a compimento un’importante missione. L’inverno che sta arrivando lo avvolgerà tra le sue mortifere braccia sulle montagne della catena del Pacifico.

Questo romanzo, dal sapore di un’epopea, col suo ritmo lento e le lunghe descrizioni della selvaggia natura del continente americano, non segue una scansione temporale cronologica, ma alterna il racconto del presente con quello del passato. Ciò che colpisce il lettore è la sapiente caratterizzazione dei personaggi, la loro carica emotiva e la loro capacità di essere talvolta compassionevoli, talvolta crudeli. Su tutti aleggia lo spettro della guerra, la sua incredibile devastazione, la sua potenza che ha degli effetti disumanizzanti sull’intera popolazione. Conseguentemente, l’essenza della wilderness che dà il titolo al libro non è tanto l’ambiente naturale che fa da scenografia alla storia quanto la vita stessa degli uomini e delle donne. La guerra ha azzerato ogni comportamento civile facendo regredire l’uomo ad uno stato primitivo in cui sono gli istinti, nel bene e nel male, a prevalere. Ci sono personaggi come Hypatia, Ellen, Glenn e Oyster Tom che, in quanto privi di potere perché non appartenenti alla razza bianca o semplicemente perché donne, trasformano l’odio e le violenze subite in una straordinaria capacità di provare compassione per il genere umano, indifferentemente dal colore della pelle o dalla fedeltà ad una ideologia. Ci sono altri come Abel stesso che tentano di cancellare il marchio che la guerra ha lasciato nelle loro anime, oltre che sui loro corpi, senza tuttavia riuscire a liberarsene definitivamente se non di fronte alla fragilità di un vecchio cane malato o di una bambina a cui hanno barbaramente ucciso i genitori. Infine appaiono anche personaggi assolutamente negativi, come i due avventurieri responsabili del furto del cane e di altri terribili misfatti, che incarnano l’essenza della crudeltà e l’assurdità della violenza. Ma il male, così sembra dirci lo scrittore americano, dopo aver colpito vittime innocenti, si rivolge contro chi lo ha fatto come in una sorta di resa finale dei conti. La bambina salvata da Abel e da Glenn diviene perciò l’emblema della vittoria della vita sulla morte, della possibilità della rinascita del mondo dalle ceneri lasciate dalla furia dell’umanità. Le ultime pagine del libro rappresentano quindi un messaggio di speranza che Weller ha voluto dare ai lettori come risposta alle barbarie della guerra e che noi accogliamo con profonda gioia. Buona lettura!

 

La città dei sogni. Bagliori a San Pietroburgo.

bagliori a san pietroburgodi Chiara Rantini

Jan Brokken, Bagliori a San Pietroburgo, Iperborea, Milano, 2017

Jan Brokken, giornalista e scrittore olandese, dopo Anime baltiche, ritorna nuovamente nell’ex Unione Sovietica scegliendo la città che meglio rappresenta la cultura e la letteratura russe.

Brokken aveva già visitato San Pietroburgo nel 1975, durante il regime comunista, raccogliendo una serie di sensazioni e di suggestioni che, a causa delle limitazioni negli spostamenti, non potevano che essere parziali. Nel 2015, nel pieno dell’inverno russo, decide quindi di tornare nell’antica capitale. Ora è libero di andare dove vuole e facilmente può constatare quanto la città sia cambiata rispetto al passato, nel bene e nel male. I palazzi fatiscenti sono stati restaurati, le vie del centro sono ben curate ma c’è anche una controparte: l’ingresso incondizionato dei simboli del consumismo (Mc Donald’s, catene di negozi di grandi multinazionali, boutiques di lusso) non ha risparmiato gli angoli più pittoreschi della città. San Pietroburgo si è uniformata al modello di altre metropoli europee perdendo un po’ del suo fascino fin siècle che, paradossalmente, era ancora nell’aria nel 1975. Le pagine del libro di Brokken rievocano proprio questo glorioso passato artistico-letterario. A San Pietroburgo vissero i più importanti scrittori e artisti del XIX e XX secolo tra i quali Esenin, considerato dai pietroburghesi stessi come il più grande poeta della patria e Anna Achmatova che affrontò il dolore della persecuzione dei propri familiari da parte delle autorità sovietiche. Molti dei grandi letterati che qui soggiornarono presero la via dell’esilio continuando ad essere legati visceralmente a questa città pur nella lontananza: tra loro Nina Berberova e W. Nabokov. st-petersburg

Un posto d’onore spetta a F. Dostoevskij come il letterato che meglio seppe interpretare lo spirito di San Pietroburgo. Senza questa misteriosa e affascinante città non sarebbero nati capolavori come I demoni, Delitto e castigo o un racconto come Le notti bianche.

Da molti considerata come l’Amsterdam dell’est, San Pietroburgo fu pensata e costruita dallo zar Pietro il Grande nel secolo XVIII; come la gemella nederlandese, a cui si ispirava il sovrano, sorse sull’acqua, attraversata da una fitta rete di canali a pochissima distanza dal mare. Una città freddissima d’inverno, dal clima malsano e nebbioso nelle altre stagioni; un luogo che tra le sue brume può nascondere efferati delitti e grandi misteri.

Grazie ad una estesa ed accurata documentazione fotografica, il lettore di Bagliori a San Pietroburgo può incontrare visivamente il volto dei protagonisti che hanno fatto grande questa città. Così guardando il volto serafico e bellissimo del principe Jusupov è difficile riconoscere i tratti dell’assassino di Rasputin, come è arduo intuire nel sorriso giovanile di Esenin il presagio di una volontà suicida che lo porterà a morire in una camera d’albergo a soli 23 anni mentre era al culmine della propria fama di poeta. Prince_Felix_Yusupov

È doveroso ringraziare l’impegno di Brokken per aver raccolto tutte queste storie e averne fatto un unico libro raccontato con la mente e col cuore. Sì perché ciò che distingue questo testo da un qualsiasi volume di critica letteraria o di cahiers de voyages è proprio la partecipazione emotiva, l’attaccamento a San Pietroburgo che emerge da ogni singola pagina. Un monumento ad una delle più belle città d’Europa.