Boris Borisovič Ryžij. L’ultimo poeta sovietico e il primo di nuova generazione

di Chiara Rantini

Quest’anno ricorre il ventennale della morte del poeta russo Boris Borisovič Ryžij.

Molto conosciuto in patria, in Europa e soprattutto in Italia, è noto solo agli addetti ai lavori e a chi s’interessa di letteratura russa contemporanea.

Poeta di un’epoca di transizione, resta ai margini proprio perché difficilmente inquadrabile in un movimento o in una corrente letteraria.

L’articolo completo qui:

Boris Borisovič Ryžij. L’ultimo poeta sovietico e il primo di una nuova generazione

Carlo Michelstaedter, poeta senza età

Sono solo alcuni pensieri sparsi quelli che trascrivo in questo breve testo, nato dall’esigenza di ricordare il poeta goriziano nell’anniversario della sua morte (110 anni, 17 ottobre 1910): un poeta, per molti aspetti dimenticato, forse riscoperto solo recentemente.

Sono stata più volte nella sua Gorizia, una città che fino a non molto tempo fa, era visibilmente divisa tra due nazioni. Oggi i confini sono più fluidi ma non abbastanza le menti.

La tomba di Carlo si trova in territorio sloveno poco oltre il confine in un piccolo cimitero in stato di abbandono e difficile da individuare. Ci sono le lapidi di famiglia, in bella pietra e con grandi scritte, ma la sua è piccolissima e porta solo il suo nome e le date di nascita e morte, un cippo avvolto dall’erba circondato da due svettanti cipressi. Carlo morì suicida per troppo amore e incomprensione della vita, ma la sua poesia resta per quello che è, pura, essenziale, vera.

La poesia di Carlo Michelstaedter è una poesia di contrasti, di ombre e di luci, di morte e di vita; ad animarla contribuisce la follia veggente di un cuore giovane che non teme il martirio. Gli elementi che la compongono sono sostanza del vissuto interiore. Il dissolvimento, la nebbia, la pioggia, la luce resa incerta dall’incombere subitaneo delle tenebre, l’indifferenza e la seduzione della natura che nascono dal continuo rinovellarsi delle forme e dalla possibilità, sempre presente, di travalicare i confini angusti della prossimità e del visibile per spingersi negli spazi infiniti laddove il cielo e il mare si confondono, l’attesa priva di speranza, l’amore per la violenza degli elementi – il vento, le onde impetuose – , non sono altro che immagini di stati interiori, di profondità nascoste a cui solo la poesia può avere accesso.

Le cose ch’io vidi nel fondo del mare,

i baratri oscuri, le luci lontane

e grovigli d’alghe e creature strane,

Senia, a te sola, lo voglio narrare

(…)

Perciò se freddo e ruvido io ti sembri,

ma tu lo sai: è per vieppiù andare,

è per nutrir più vivida la fiamma,

perché un giorno rispenda nella notte,

perché possiamo un giorno fiammeggiar

liberi e uniti al porto della pace.

In Itti e Senia, Carlo quando scrive “le cose che io vidi nel fondo del mare” svela la condizione del poeta veggente: vedere in profondità, vedere dove regna la perenne oscurità eppure vederci chiaramente mentre sulla terra, alla luce del sole, tutto è confuso in un miscuglio di essenza e di apparenza. Questa è una condanna e una liberazione allo stesso tempo. Sola la parola poetica può lottare contro la nebbia della falsità ma per fare questo deve nascere dal profondo dell’anima, dagli abissi marini che il poeta incauto e coraggioso ha voluto vedere rischiando la propria vita.

Molta di questa potenza perde vigore nel suo essere trasfusa nelle parole, e tuttavia, l’anima del lettore è tutta scossa e trema perché la voce del poeta che ama la verità più della propria vita non può lasciare indifferenti.

Poesia dell’incompiuto quella di Michelstaedter, ovvero dell’uomo che scopre di essere incompiuto: la solitudine, la tristezza, la nostalgia che caratterizzano molte delle sue poesie, sono la manifestazione di tale incompiutezza.

Cade la pioggia triste senza posa

a stilla a stilla

e si dissolve. Trema

la luce di ogni cosa. Ed ogni cosa

sembra che debba

nell’ombra densa dileguare e quasi

nebbia bianchiccia perdersi e morire

mentre filtri voluttuosamente

oltre i diafani fili di pioggia

come lame di acciaio vibranti

Così l’anima mia si discolora

e si dissolve infinitamente

che fra le tenui spire

l’universo volle abbracciare

Ahi! Che svanita come nebbia bianca

nell’ombra folta della notte eterna

è la natura e l’anima smarrita

palpita e soffre orribilmente sola

sola e cerca l’oblio.

Poetica dei quattro elementi (aria, fuoco, acqua, terra), in Michelstaedter la forza della parola è fuoco, il poeta è terra che vuole liberarsi dal peso della gravità, memoria e oblio sono acqua, l’amore, che pervade l’anima infiammata, aria che sale verso un mondo nuovo e sconosciuto.

La poesia di Carlo Michelstaedter occupa un posto di assoluta originalità nel pantheon lirico nostrano, una sorta di estremo stilnovo esistenziale, nudo, privo di conforti, purissimo e sconsolato, scrive Piromalli nella sua introduzione all’opera e al pensiero dello scrittore goriziano. Originalità che probabilmente nasce dall’incontro inconscio di culture diverse in una terra di confine dove la sensibilità dell’animo si affina, camminando su una linea immaginaria tra due profondi e vasti mari esistenziali.

di Chiara Rantini

LUOGO DI CONFINE

UN VIAGGIO LETTERARIO A TRIESTE E NELLE TERRE LIMITROFE

di Chiara Rantini

Di viaggi se ne possono fare di svariati tipi. Ci sono viaggi che coinvolgono solo l’aspetto motorio (rari e inutili), viaggi che sono totali in quanto condotti con la mente, con i piedi e col cuore e altri che chiamano in causa solo (si fa per dire) l’intelletto e la sensibilità interiore. Spesso, questi ultimi, sono l’effetto di una suggestione dettata da un racconto orale o da una lettura.

Una serie di circostanze recentemente mi ha condotta a percorrere, non solo mentalmente, alcune zone di confine da me molto amate. È nato così un viaggio letterario che ha per meta Trieste, l’Istria e oltre, fino a Lubiana e Zagabria. Suggestione letterarie e memorie personali di viaggio si mescolano in un percorso a tratti onirico. Viaggeremo in compagnia di autori noti e meno noti che avrò cura di segnalare in una nota bibliografica a parte.

Dopo queste prime brevi avvertenze, non resta che partire con la giusta predisposizione alla scoperta.

TRIESTE

Trieste, il luogo della nostalgia asburgica, il luogo del fernweh che assale il sensibile viandante sin dal suo arrivo. Trieste, o la ami alla follia o ti resta indifferente!

Guazzabuglio storico e linguistico (ora molto meno) è la città della mancanza di affermazioni esclusive: non è solo italiana, non è solo slovena…

Si potrebbe dire priva di identità ma si sbaglierebbe di molto: l’identità è in questo suo stare in equilibrio tra venti contrari (non a caso è la città della bora) sfuggendo alle frontiere, ai confini netti, all’appartenenza che non sia quella dettata dalla sua stessa libertà.

A Trieste soffia la bora: spesso in inverno ma talvolta anche in estate.

Alla bora piacciono le porte, le gole strette, i cunicoli naturali in cui si insinua con violenza, da padrona. Quando sono stata in Istria, ho visto l’ultima porta della bora prima del suo dilagare in mare e su Trieste: si tratta di un’insenatura, un piccolo golfo a gomito tra Fiume e Abbazia. La bora quando è carica della rabbia siberiana passa di là, scendendo dai monti del Gorski Kotar; rotola a valle come un fiume in piena gonfiandosi a dismisura. Nelle giornate quiete, questo piccolo golfo è il luogo prediletto di chi ama il windsurf perché il vento (emanazione tranquilla della bora) non manca mai: un signore da Lubiana sale in auto alle tre del mattino perché alle sei ha appuntamento col vento …così raccontano i miti moderni e io voglio crederci.

Trieste si distende verso il mare ma non dimentica la terra alle sue spalle. Il Carso con i suoi sassi, le rocce bianche, i ripidi fianchi brulli è sempre stato luogo di attrazione e di elezione degli scrittori; forse perché non chiede una militanza linguistica: la natura è sempre la stessa, ostile e benevola, terra che dona il senso di appartenenza ai popoli della montagna, sloveni o italiani non fa differenza. Slataper, Kosovel e Saba cantarono gli stessi luoghi in metri e melodie diversi ritrovandosi poi insieme, in forma di statue e di epigrafi, sul Sentiero dei Poeti che sale nel Carso da Monrupino.

E in Monrupino è possibile identificare il piccolo paese di M. dove si svolge la kafkiana vicenda narrata nel romanzo di Stelio Mattioni Dolodi. La storia ha come protagonista una casa sul confine italo-sloveno; una coppia di triestini l’acquista, suggestionata dall’enigmatico Dolodi che ne vanta meraviglie. Appena però prendono possesso dell’abitazione, la loro vita comincia misteriosamente a cambiare mentre inspiegabilmente, nottetempo, il confine si sposta sempre più vicino alla casa. Al termine del romanzo, i due cittadini, estranei a tutto l’ambiente che li circonda (il mondo rurale e sloveno), pur avendo raggiunto una nuova consapevolezza di sé, rinunciano a carpire il segreto di queste terre arse e sassose del Carso, ritornando nella avita e quieta Trieste.

Dalle modeste cime, lo sguardo torna verso il mare, verso la distesa infinita del non-luogo per elezione, l’essenza spogliata di ogni superfluo della vita, la meta, che meta non è, bramata da Carlo Michelstaedter nel suo poema Itti e Senia. Non posso non immaginare il giovane goriziano seduto su uno scoglio a Pirano con lo sguardo fisso verso la Punta del Salvore intesa non come punto di arrivo ma come partenza verso un viaggio di non ritorno nel grande e vasto mare.

Sono molti anni che manco da Pirano; quando la visitai ero molto giovane però l’atmosfera non era dissimile a quella triestina: mare e terra uniti in uno stretto connubio di bellezza…di quella bellezza che genera malinconia.

Si può avere nostalgia di ciò che non si è visto né vissuto? Se lo si è letto nei libri, certamente! Recentemente mi sono imbattuta in un libro di racconti su Trieste: I fantasmi di Trieste di Jelinčič. Ho seguito la narrazione di quei “fantasmi” al punto tale che mi sono sentita ribaltata in epoche lontane, donna con prole all’inizio del Novecento mentre salutava il consorte all’ingresso del bagno El Pedocin oppure lavoratrice scampata alla miseria della seconda guerra mondiale mentre scendeva in città da Opicina sul mitico tram. I matti dell’OPP invece mi sembrano così familiari che non ho bisogno di immaginarmeli: li vedo passeggiare nel parco di San Giovanni accompagnati dalle loro stravaganze e dalla speranza di un mondo alla rovescia (la vera e unica rivoluzione) in cui i cavalli di Troia non entrano per seminare morte ma escono per portare la vita.

Non ci sono più treni da Trieste per la frontiera orientale. E non da quando la città è tornata a essere definitivamente italiana. I ponti con la terra degli slavi e con gli antenati mitteleuropei non sono stati tagliati negli anni compresi tra i ’50 e i ’70. Paradossalmente era possibile muoversi nell’ex-impero su via ferrata più agevolmente durante il periodo della guerra fredda. Sembra che la modernità e l’alta velocità siano nemiche del passato di Trieste.

Saggio Rumiz, votato ai viaggi anacronistici nelle terre di un impero che non esiste più, sulle tracce delle vestigia di città oltre tutte le frontiere esistenti, zone liquide che hanno mantenuto nomi bizzarri come Galizia, Volinia, Bucovina! Niente più treni per il perduto Oriente: oggi si viaggia in bus almeno sino a Vienna, Zagabria, Lubiana: poi i collegamenti su via ferrata riprendono, riemergendo come fiumi carsici, pur nella consapevolezza di aver perso una parte importante.

C’era una tratta ferroviaria a metà del XIX secolo che collegava Fiume a Budapest. Era il fiore all’occhiello dell’Impero, l’orgoglio della conquista di uno sbocco sul mare anche per gli Ungheresi. Fiume divenne ungherese in virtù di questa ferrovia. Ora non è rimasto quasi più niente e un ramo di collegamento che partiva da Trieste è diventato una bellissima ciclo-pedonale, la nota pista Cottur, la migliore occasione per conoscere la selvaggia val Rosandra!

Abbiamo già lasciato Trieste e siamo pronti ad esplorare le frontiere dell’impero passando dalla porta stretta (di memoria kafkiana) della stazione delle autolinee: un altro mondo che già conosciamo un po’, sebbene forse, anche noi custodi di un nobile passato, non vedremo più certi personaggi come gli spazzacamini o le donne cariche di pacchi che sprigionano l’inconfondibile profumo di alimenti fermentati.

Siamo solo all’inizio. Il viaggio continua.

ISTRIA protagonista. A margine, Lubiana e Zagabria

Il viaggio riprende da Capodistria. Un porto, una città vuota in inverno: mi ricorda Fiume anche se la città del Quarnaro è molto più grande, ricca di storia e di memorie recenti perciò più viva ma non certo il luogo istriano da cartolina come Abbazia o Rovigno. Ma se invece vai oltre verso il confine con la Croazia, incontri Isola e là i ricordi si fanno di pietra bianca, di casette basse color ocra, piazzette dal sapore veneziano e il mare blu sullo sfondo. Isola è solo l’antefatto, l’introduzione allo splendore ineguagliabile di Pirano.

“Una mescolanza di nostalgia (quante volte ritorna questa parola) e di vita” scrive Samonà. E come non essere in accordo? Pirano è un tuffo nel passato, a cominciare dalla statua di Tartini nella piazza principale, dalla chiesa che veglia dall’alto della collina, dalle sue strette vie frequentate solo da pedoni. Pirano è destabilizzante per il suo essere sospesa tra due braccia di mare, per il suo essere attaccata alla terra e protesa verso l’infinito, verso la Punta del Salvore che Michelstaedter aveva elevato a simbolo dell’eternità. Il mare è placido e tranquillo sul lato che guarda il porto, selvaggio e insidioso dalla parte sovrastata dalla alta scogliera in direzione di Isola. Nei paesi della “frontiera spaesata” tutto è duplice. Ogni città, ogni luogo è un chiaroscuro. Non so se in inverno, talvolta la nebbia faccia la sua comparsa a Pirano: se così fosse, cerco di immaginare la piazza che lentamente svanisce di ogni suo contorno come sotto l’effetto di un incantesimo che annulla lo scorrere del tempo: potrei sentire i passi di Tartini sul selciato e non meravigliarmi.

Il tempo riprende a scorrere. Di Portorose ricordo le brossure che pubblicizzano le terme e i casino. Invece, nelle pagine del libro, scopro un paese quieto circondato dall’acqua delle saline, luogo di sole e di paludi dove è facile perdere l’orientamento. Varcare la frontiera è un attimo, soprattutto se sei a piedi. Il mondo nuovo si chiama Croazia anche se l’Istria viene molto prima nel tempo.

L’Istria è un mondo a parte così come scrivono i grandi scrittori Fulvio Tomizza e Giani Stuparich.

L’Istria non è un’isola ma ha tutti i profumi e i colori delle isole. Il mare potrebbe essere quello della Liguria per colore e per profondità, i paesi hanno in sé qualcosa che ricorda Venezia (non Trieste che ha una impronta asburgica come Fiume) soprattutto i campanili, ma i pendii sono diversi. I vitigni sono più lontani dal mare, in luoghi riparati dalla bora, le rocce sono candide, su tutto domina la boscaglia a ciuffi e i sassi: un paesaggio aspro e dolce allo stesso tempo, qualcosa che suscita il deja vu pur senza darti delle coordinate ben precise. Illiria, terra di Etruschi? Potrebbe essere questo il legame, forse un po’ azzardato. Non so, qualcosa nel panorama ricorda l’asprezza delle colline siccitose nella campagna toscana, i monti della Calvana in estate quando le ginestre tingono di giallo i pendii o le boscaglie delle alture pisane dove già si respira l’aria di mare.

Parenzo con la sua basilica eufrasiana è un gioiello che manca alla mia collezione. Ho il desiderio di tornare ma di tornare a piedi. Ora so anche come, seguendo l’antica linea ferroviaria che da Trieste conduceva a Parenzo. Il percorso esiste e attraversa luoghi di mare e di terra, un percorso pieno di sole, di profumi in estate, e di vento, di nuvole in inverno. A passo lento tutto è più buono: una pietanza che non mangi ma che assapori. L’unico problema del viaggiare a piedi è il bagaglio: vorrei portare con me i romanzi, le voci degli autori istriani ma so che sono molti, troppi per stare in uno zaino: perché l’Istria è una terra di storia e di letteratura, una mescolanza di lingue che la rende incredibilmente ricca.

E infine le grandi città capitali di due nazioni che fino a trent’anni fa non esistevano.

Lubiana è una signora che veste abiti classici con un tocco di romanticismo. Attraversa le vie e i ponti e si lascia guardare come se fosse uno spirito, ma benevolo. Appare e scompare come una sorta di vodnik, creatura dell’acqua che dalla Ljubljanica risale gli argini prativi e cammina nelle strade raccontando molte storie del passato. Cammina fino al Castello e là si ferma in attesa di un nuovo giorno.

Zagabria è una giovane donna un po’ intellettuale, dinamica, proiettata verso il futuro. Crede nel sogno europeo e lotta per vederlo concretizzarsi. Studia le lingue cercando di non considerarle una barriera. Ama le molteplici identità ma l’eco della guerra è ancora troppo vicino. Se a Trieste ci sono ancora dei fantasmi e sono ben visibili, a Zagabria vanno ancora cercati.

Una di queste due donne l’ho conosciuta ma forse un po’ troppo frettolosamente: troppo giovane per capire l’importanza dei fiumi, troppo giovane per capire la vita. Sono felice di averla vista in autunno e ho un ricordo di lei in banco e nero molto retrò, appunto come una signora di mezza età ancora molto bella.

Non conosco Zagabria ma la sogno come un punto di partenza verso le infinite terre della Pannonia, verso Ptuj e le pianure solcate dalla Drava, steppa ungarica che evoca ricordi mongolici. Ecco l’esotismo dei Balcani, ecco la voce che chiama da Oriente!

Vorrei proseguire il viaggio, anche uno di carta va bene, cartografico ancora meglio.

La frontiera è sempre più oltre.

BIBLIOGRAFIA

Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino, 1987

Dušan Jelinčič, I fantasmi di Trieste, BEE, Udine, 2018

Stelio Mattioni, Dolodi, Zandonai, Rovereto, 2011

Carlo Michelstaedter, Poesie, Adelphi, Milano, 1992

Paolo Rumiz, Vento di terra. Istria e Fiume: viaggio tra i Balcani e il Mediterraneo, BEE, Udine, 2020

Giuseppe A. Samonà, La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani, Exorma, Roma, 2020

Giani Stuparich, Un anno di scuola. Ricordi istriani, Einaudi, Torino, 1994

Fulvio Tomizza, La ragazza di Petrovia, Mondadori, Milano, 1975

Il Cantico dei Cantici. L’amore tra cronaca e segno 

di Daniele Marletta

chagall

L’importante è esagerare, titolava Iannacci. Ma a forza di esagerare è facile dire banalità.
Non ci aspettavamo nulla di particolarmente profondo da una lettura del Cantico dei Cantici fatta da Roberto Benigni. Non è un poeta, non è un esegeta, non è neppure un esperto di letteratura ebraica. Nessuna sorpresa, dunque, per gli imbarazzanti svarioni presi durante il suo spettacolo. Tralasciamo quindi di commentare la sua improbabile traduzione semipornografica e, già che ci siamo, sorvoliamo sul fatto che secondo lui questo Libro sarebbe entrato nel Canone delle Scritture quasi per caso. Sorvoliamo anche sull’inciso politicamente corretto di propaganda omosessualista per cui il Cantico “comprende ogni tipo di amore, anche tra donna e donna, tra uomo e uomo, l’amore per tutto”. Chiudiamo pure benevolmente un occhio su tutto o quasi. D’altra parte, ognuno ha il suo mestiere: se Aristotele si materializzasse tra noi per raccontare una barzelletta, nessuno riuscirebbe a ridere. Certo, Benigni sul palco dell’Ariston è riuscito invece a riscuotere i suoi consensi; a qualcuno è sembrato effettivamente profondo, e questo è di sicuro un inquietante segno dei tempi. Ma tralasciamo anche questo.

C’è una cosa, però, che non si può tralasciare, ed è proprio il fulcro su cui ruota tutta l’esposizione del Cantico che abbiamo udito dal nostro “piccolo diavolo”. Questo libro sarebbe infatti secondo Benigni un canto (o “una canzone”, come lui lo ha definito) solamente umano, solamente erotico. Solo una storia d’amore, un po’ alla Je t’ame… moi non plus di Serge Gainsbourg, con tanto di sospiri e gridolini. Siamo sicuri che il Cantico sia solo questo? È solo come canto erotico che è giunto fino a noi? Decisamente, Benigni non si avvede di una cosa semplicissima, e cioè del fatto che, preso così com’è, solo come canto erotico, il Cantico dei Cantici non è questa gran cosa. Se voglio leggere qualcosa di erotico – qualcosa che sia solo erotico – meglio leggere Alfred de Musset, o Il Diavolo in corpo di Radiguet, o magari Le con d’Irene di Luis Aragon. E per chi avesse gusti più facili dei nostri ci sono anche le cinquanta sfumature e l’altra spazzatura che l’industria editoriale vomita ogni anno sugli scaffali delle librerie. Insomma, ridotto alla sua quintessenza erotica – e soltanto erotica – il Cantico dei Cantici è solo un libro tra gli altri libri, appartenente tra l’altro a una cultura molto lontana dalla nostra, quindi anche più difficile da comprendere nelle sue metafore, meno immediato nella comprensione.

Ciò che veramente differenzia il Cantico dei Cantici da tutti gli altri libri erotici è proprio il principio per cui esso è entrato a far parte delle Sacre Scritture. L’idea che l’amore tra l’uomo e la donna possa essere metafora o, meglio ancora, icona dell’amore tra Dio e la Chiesa non è (come crede il comico) una sorta di escamotage per giustificare la presenza di questo strano Libro dentro la Bibbia. Questa idea è al contrario una intuizione assai più profonda, assai più rivoluzionaria di qualsiasi lettura meramente “erotica” del testo: la trasfigurazione dell’Eros; l’Eros che si mostra per quello che è realmente, spiritualmente. D’altra parte, il riferimento alla natura sponsale del rapporto tra Dio e il suo popolo è abbastanza frequente sia nella letteratura profetica che in quella sapienziale. Il Profeta Ezechiele, tanto per fare un esempio, si dilunga nel rappresentare il Popolo eletto che una donna di straordinaria e sensualissima bellezza. E quando i profeti parlano dei tradimenti, delle apostasie di quello stesso popolo, lo fanno sempre attingendo all’immaginario erotico, parlando di adulterio o di prostituzione. È sempre Ezechiele a non farsi problema nel descrivere quelle apostasie proprio rappresentando visivamente Israele nell’atto di prostituirsi alle nazioni straniere: «ad ogni crocicchio ti sei fatta un altare, disonorando la tua bellezza, offrendo il tuo corpo a ogni passante, moltiplicando le tue prostituzioni. Hai concesso i tuoi favori ai figli d’Egitto, tuoi vicini dal grande membro, e hai moltiplicato le tue infedeltà per irritarmi.» (Ez 16, 25-26)

Il Cantico dei Cantici, insomma, lungi dall’essere solo e soltanto “una canzone d’amore”, ci mostra che l’Eros non finisce qui sulla terra, che anzi giunge più in alto di noi, al di là di noi e delle nostre vite transitorie. Il Cantico ci insegna che l’amore umano per l’altro è già – di per sé – richiamo all’Altro e all’Altrove. Al di là della cronaca che la letteratura può farne, l’amore è un segno che ci insegna Dio.

BOSCHI, TERRE E PORCI AL PASCOLO. UNA PASSEGGIATA NELLA STORIA

di Chiara Rantini

Passeggiando in un bosco o lungo un sentiero che costeggia una prateria, vi siete mai chiesti se quello che vedete sia sempre stato così, in quella forma e con quei colori? Sappiamo bene che il paesaggio è il risultato di un processo storico e ci sono molte pubblicazioni su questo argomento  ma finché non sono i nostri piedi a percorrere quel luogo, la teoria resta molto astratta.

Così ho voluto verificare di persona.

Sono andata in Alto Mugello. Dal passo del Giogo di Scarperia scende un sentiero fino a un piccolo gruppo di case, Osteto. Tutto intorno si trova un castagneto da frutto curato e ben pulito. Non sono più molti sull’Appennino i castagneti accuditi con tale zelo. Fino agli anni ’60 del XX secolo, era la regola perché si trattava di un’economia di sussistenza. Oggi la castagna è un prodotto di nicchia, quasi elitario, venduto a caro prezzo. castagneto a osteto

Uscendo dal borgo, mi chiedo se è sempre stato così o se sia esistita un’epoca che precedeva la coltura del castagno. Con questi pensieri arrivo alla Badia di Moscheta. Il nome è preso a prestito dall’abbazia vallombrosana che qui sorse per opera di Giovani Gualberto nell’XI secolo.

Al tempo era frequente che i nobili signori governatori della zona (i conti Guidi, gli Ubaldini furono i più importanti) concedessero in dono alcune terre per la fondazione di comunità monastiche; così, fu anche nel caso di Giovanni. Il monastero ebbe vita prospera e felice fino al XVIII secolo, quando le riforme in materia religiosa del Granduca Pietro Leopoldo ne provocarono la soppressione. I beni furono venduti all’asta e la proprietà passò alla famiglia Martini che la governò a mezzadria.

Ancora oggi, l’abbazia conserva un po’ di questo spirito rurale e dell’antico afflato mistico non rimane molto. moscheta-2015

Oggi è diventata una meta del turismo escursionistico e una rete di sentieri la collega al resto del Mugello montano. Mi incammino su uno di questi sentieri, soggiogata dalla bellezza del paesaggio quasi invernale. Anche qui ci sono castagneti ma non molto curati e quasi soffocati dall’avanzata della faggeta. Più in alto scorgo sento il frusciare di un’abetaia. È noto che i monaci, soprattutto quelli appartenenti alla regola benedettina e alle sue filiazioni, erano abili fautori dell’incremento della foresta in territori montani. Ma non sarebbe stato più produttivo fare spazio alle coltivazioni tradizionali come le patate, l’orzo, il grano piuttosto che far crescere una fitta foresta?

Mentre penso a questo, vedo sbucare una capretta: scende il pendio sassoso del bosco e sparisce tra gli alberi in pochi istanti. Ecco la soluzione! Niente è casuale. Per un momento mi sento trasportata in un altro tempo quando il bosco da pascolo costituiva il tipico paesaggio appenninico. Potrei essere finita nell’età della dominazione longobarda allorché i terreni dediti alle coltivazioni erano stati abbandonati a causa del calo demografico e si trovavano invasi dalla vegetazione spontanea. I Longobardi furono gli unici barbari che si stabilirono in modo stanziale in queste zone, radicandosi fortemente nel territorio. La pastorizia era la loro attività principale e oltre agli ovini era diffuso l’allevamento dei porci che pascolavano liberi nel bosco. I boschi da pascolo rispondevano a esigenze precise: la mitigazione delle alte temperature estive, la possibilità di un riparo al gregge, la produzione di frutti quali la castagna e la faggiola. L’età dell’Illuminismo seguì la via della produttività e, cacciati i monaci che in qualche modo furono i custodi della tradizione “longobarda”, si ritenne opportuno trasformare questi luoghi in ampi spazi coltivati, complice anche l’aumento vertiginoso della popolazione.

Ora, a causa dello spopolamento della montagna. sono ricomparsi i boschi, i faggi e gli abeti con i loro silenzi. E anche se apparentemente potrebbe sembrare un ritorno al passato barbarico, la situazione è diversa perché si tratta di un bosco non coltivato, un bosco che rinasce spontaneamente e riconquista selvaggiamente i suoi spazi. Piuttosto che ai Longobardi, il paragone è più evidente con l’implosione dell’impero romano d’Occidente, con un’età di decadenza in cui l’uomo è più impegnato a combattere contro se stesso piuttosto che a pensare alle future generazioni.

Carica di questi pensieri, torno verso ciò che resta dell’antica abbazia e mi lascio incantare da un turbine di foglie del colore del fuoco cadute a terra.

E poi c’è chi dice che dal passeggiare nei boschi si impara solo a bighellonare…

ETTY HILLESUM, un’oasi di serenità nell’impero del male.

etty-hillesumdi Chiara Rantini

Se dovessi descrivere Etty a chi non la conosce, userei un’immagine e un pensiero. L’immagine, un prato sconfinato disseminato di fiori sotto un sole gentile e tiepido, il pensiero, ciò che la stessa Hillesum scrisse quando si trovava nel campo di lavoro di Westerbork:

“Provo grande stupore per gli uomini che non conoscono limite al male.”

Luce, pace, stupore quasi infantile sono le qualità che la caratterizzano all’inizio della terribile esperienza di Westerbork, anticamera per Auschwitz, qualità che miracolosamente restano in lei intatte fino al termine della sua vita terrena.

Nel luglio del 1942, mentre in Europa infuria la guerra, Etty non cerca un rifugio (in quanto ebrea era in costante pericolo) lontano dagli orrori continentali ma si offre volontaria per assistere le migliaia di ebrei e profughi tedeschi politicamente sgraditi al Reich nel campo di lavoro di Westerbork. Ogni giorno si aggira instancabilmente tra le baracche distribuendo generi alimentari (quel poco che è disponibile) e confortando con una parola o con uno sguardo coloro che, separati dai propri cari e dalla propria vita, soffrono indicibilmente. Ma lei non si lascia sedurre dalla disperazione. Volge gli occhi al cielo, annota il tempo del giorno, e con una forza straordinaria, tenta di vedere oltre la situazione contingente “trasformando in fiabesca realtà la sconvolgente atroce condizione di Westerbork.”

Attingendo alla sapienza talmudica e hassidica, Etty sa che il dolore provato nel campo è maggiore di quanto un essere umano possa tollerare e che la vita non è un bene che deve essere conservato ad ogni costo, a dispetto della dignità e dell’umanità di ciascuno. E tuttavia sa anche che il seme che muore non è invano: porterà frutto, rappresentando così il segno di un tempo nuovo, un tempo di rinascita. Sembra assurdo, illusorio, consolatorio sviluppare questo genere di pensiero in un luogo dove la minima libertà personale è azzerata, ma per Etty questo è il contenuto della propria fede e lo scopo ultimo dell’esistenza: vivere per volgere il male in bene. “Ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo rende inospitale” scrive mentre intorno a lei il male prende forma e si diffonde come un veleno nel cuore delle persone.

Di famiglia non osservante, Etty aveva incontrato Dio nella sua vita grazie a Julius Spier. Maestro, amante, fratello, amico, Julius, devoto junghiano, era per lei come un intermediario con Dio. Leggendo i Vangeli e soprattutto gli scritti di san Paolo, la Hillesum trovò nel cristianesimo la formula migliore per rendere perfetta la vita dell’uomo. Facendo riferimento al contenuto nel capitolo 13 della Lettera ai Corinti, diceva che la terra potrebbe essere un luogo di pace se per tutti avessero un valore le parole usate da san Paolo nel suo Inno all’Amore. Secondo il pensiero della Hillesum, infatti, “non esiste nesso casuale tra il comportamento delle persone e l’amore che si nutre per il prossimo”, ovvero l’Amore è svincolato dal suo oggetto e si posa indistintamente su tutti e su tutto. Per quanto vivesse come una prigioniera, Etty non percepì mai di essere stata privata della libertà perché il suo concetto di libertà andava ben oltre l’idea di una possibilità di movimento o di espressione autonoma. Simile all’idea che i martiri avevano della libertà, sapeva bene che la violazione operata dal male nei confronti del corpo e dell’anima non poteva avere conseguenze se ostinatamente l’uomo continuava a amare la vita e a attendere con fiducia “l’avvenire custodito da Dio”.

“Marchiati dal dolore per sempre eppure la vita è meravigliosamente buona se custodiamo Dio nelle nostre mani” avrebbe detto insieme a un altro martire dei campi di concentramento Dietrich Bonhoeffer.

Il 7 settembre del 1943, dopo un anno trascorso a Westerbork, Etty salì sul treno diretto a Auschwitz. Nell’ultima cartolina ritrovata molto tempo dopo la sua partenza, tra i saluti e la consapevolezza di essere destinata alla morte, scrive queste parole di congedo citando il testo del salmo 30 (31) versetto 4:

“Tu sei la mia roccia e il mio baluardo, per il Tuo nome dirigi i miei passi”.

I passi mortali di Etty si perdono la mattina del 30 novembre 1943 ma essi continuano a risuonare nei suoi scritti, tra le pagine del diario e nell’anima degli spiriti liberi che vi prestano ascolto.

westerbork

 

UN PO’ DI BIOGRAFIA

Esther Hillesum nasce in una famiglia ebraica liberale. Suo padre, Louis Hillesum, è un dottore di lettere classiche e preside della scuola media di Deventer. Sua madre, Rebecca Bernstein, era fuggita dai pogrom russi nel 1907. Etty Hillesum ha due fratelli, Jaap che studierà medicina e Mischa che studierà pianoforte. Etty consegue la laurea in Giurisprudenza nel 1939 e poi approfondisce lo studio della lingua e della letteratura russa. Il 10 maggio 1940, le truppe naziste invadono i Paesi Bassi.

Etty, in quel periodo, si guadagna da vivere dando lezioni private di russo. Ha amanti molto più grandi di lei. Il 3 febbraio 1941, Etty Hillesum inizia una terapia con Julius Spier. Rifugiato nei Paesi Bassi per sfuggire alle leggi antisemite naziste in Germania, è un noto chirologo, seguace del pensiero di Carl Gustav Jung. Spier è circondato da un gruppo di ammiratori. Diventa il suo maestro spirituale, lei lo chiama “la levatrice della mia anima”. Poco dopo l’incontro con Spier, Etty inizia a scrivere, il 9 marzo 1941, un diario. Dodici mesi, scrive: “Sono venuta al mondo il 3 febbraio” e celebra il suo primo anno con Spier, definendolo “l’anno più bello” della sua vita.

Nel suo diario, riferisce l’inesorabile spirale delle restrizioni dei diritti e delle persecuzioni che portano in massa gli ebrei olandesi nei campi di transito, e poi alla deportazione. Anche Etty non sfugge a questo destino e, da Westerbork, campo di transito situato nel nord-est dei Paesi Bassi, scrive le più belle pagine del suo diario. Nel campo di Westerbork, è responsabile della registrazione dei nomi delle persone deportate.

I genitori e Etty stessa moriranno a Auschwitz nel 1943. Jaap, indebolito dall’atroce vita nei campi, non sopravviverà all’evacuazione di Bergen-Belsen nel 1945. Sono gli scritti di Etty che daranno una posterità a questa famiglia, per il loro grande valore storico, spirituale ma anche letterario.

BIBLIOGRAFIA essenziale:

Diario 1941-1943 – Edizione integrale, Milano, Adelphi, 2012

Lettere 1942-1943 (a cura di Chiara Passanti; prefazione di Jan Geurt Gaarlandt), Milano, Adelphi, 1990.

Etty Hillesum. Pagine mistiche (a cura di Cristiana Dobner), Milano, Àncora, 2007

Lettere inedite, in Comunità di Ricerca Etty Hillesum, Con Etty Hillesum, Sant’Oreste, Apeiron Editori, 2009

CALCARE. RIFLESSIONI SU UN RACCONTO DI ADALBERT STIFTER.

kalksteindi Chiara Rantini

Il calcare è una roccia sedimentaria che si è formata nei millenni da fossili stratificati. È quindi una roccia che ci potrebbe narrare molte storie. Calcare è anche il titolo di un racconto di Adalbert Stifter inserito nella raccolta Bunte Steine, Pietre colorate.

Kalkstein è un testo scritto con grande maestria e credo che non esista narrazione più discreta e, allo stesso tempo, audace nell’indagare l’animo umano.

Feci una prima lettura anni fa e subito mi colpì per la sua estrema semplicità e linearità. Inizialmente, l’impressione che ebbi fu quella di un bel racconto ma niente di più. Ora, sono giunta alla terza o quarta rilettura e comincio a scoprire le stratificazioni più profonde. La trama è molto semplice. Il testo narra la storia di un uomo che, nato in una famiglia di operosi imprenditori industriali, cresce e diventa adulto seguendo la via tracciata per lui dal padre. Ha un fratello gemello che partecipa dello stesso destino seppure in modo completamente diverso. Ma questa è solo la parte iniziale del testo che guarda a ritroso nel passato del protagonista. Il nucleo del racconto invece è incentrato sulla tarda maturità e sulla vecchiaia di quest’uomo che ha scelto di vivere, contrariamente a ciò che il destino “borghese” aveva previsto per lui, in solitudine e povertà, adempiendo al ministero ecclesiale in un piccolissimo paese della Stiria circondato da una terra brulla e sterile di aridi calanchi calcarei. L’uomo nasconde un segreto che sarà rivelato solo dopo la sua morte ma non è su questo aspetto dell’intreccio che vorrei dilungarmi. Ciò che è importante e che dà senso a tutta la narrazione è quello che segna una svolta nella vita di quest’uomo.

Il parroco del Kar, così viene chiamato il protagonista , pur obbedendo ai dettami paterni, non era mai riuscito a trarre profitto né dagli studi né dall’esperienza lavorativa nell’impresa di famiglia. Studiava senza apprendere, lavorava senza comprendere il senso del proprio lavoro. Quante volte abbiamo fatto anche noi questo stesso genere di esperienza, senza riuscire però a trovare un rimedio, andando avanti per inerzia e con una buona dose di superficialità! Ma il protagonista del racconto di Stifter fa qualcosa di sorprendentemente rivoluzionario: non abbandona la casa paterna per lanciarsi in una qualche peregrinazione romantica come sarebbe facile pensare, bensì decide coraggiosamente di fare tabula rasa e di ripartire dall’inizio, dalle prime nozioni rimaste incomprese fin da bambino, e da lì ripercorrere tutto il corso degli studi quasi fosse tornato indietro di molti anni. Dopo tale svolta, il protagonista cessa di essere un individuo qualunque e diventa un uomo in cui armonicamente convivono una dimensione intellettuale e una spirituale. Diviene perciò un uomo completo e in pieno possesso del suo futuro. Del proprio avvenire vuole fare un servizio alla comunità di coloro che non hanno voce nella società, ovvero dei bambini e dei più poveri. Perciò, non per diventare ricco e potente, mette a frutto la sapienza riconquistata con coraggio e dedizione ma per essere un uomo giusto e utile al prossimo. La dignità con la quale conduce la sua misera esistenza non può lasciare indifferente il lettore. Così come la morte, che in lui non ha niente di spaventoso, tingendosi di un’aurea di mistica attesa, come un epilogo necessario e affatto doloroso.

kalimandscharo 2

Ricominciare da capo non ha quindi il senso di una sconfitta se questa azione è mossa dal desiderio di raggiungere una maggiore consapevolezza del proprio posto in questo mondo. E dato che le letture dovrebbero sempre arricchire la nostra vita credo che questo sia l’insegnamento più importante che possiamo trarre dal racconto di Stifter; non perseguire una via che per noi resta estranea ma avere il coraggio di lasciarsi alle spalle quel poco di sicurezza che ci può dare l’abitudine per intraprendere una via autentica e significativa.

Con tale augurio, vi invito a leggere e rileggere questa grande perla della letteratura mondiale.

VIAGGIO NELLA LETTERATURA: IL ROMANZO DI FORMAZIONE (parte prima)

goethe_lehrjahre03_1795_0009_400pxdi Chiara Rantini

Il romanzo di formazione è un genere letterario che ha le sue origini nella letteratura tedesca del XVIII secolo. Esso tratta della crescita e maturazione di un personaggio dall’età giovanile a quella adulta. Il termine tedesco è Bildungroman dove la parola Bildung si traduce con costruzione o formazione; nel contesto letterario, indica dunque un processo che prevede la “costruzione” di una persona, o meglio la sua formazione. Può quindi designare tanto il processo di formazione in sé quanto il contenuto di ciò che è stato costruito, l’edificio che è il risultato di tale processo. Al centro del Bildungsroman c’è sempre un protagonista che, attraverso molte difficoltà, riesce ad instaurare un rapporto positivo con il mondo, ovvero riesce a conciliare ciò che alberga nel suo intimo con la realtà esteriore. Il personaggio principale, infatti, attraverso la Bildung, si rende consapevole della complessità della vita; in lui, ogni nuova esperienza può essere intesa come un gradino di una scala che porta a un completamento nel processo di maturazione verso l’età adulta.

Il Bildungsroman, come abbiamo detto, nasce in Germania ma si diffonde anche in altre realtà europee ed extra-europee con diverse sfumature. Perciò possiamo considerare il Wilhelm Meister Lehrjahre di Goethe come il capostipite del genere. Wilhelm è un giovane aspirante attore che fa della sua vita un apprendistato. È importante focalizzare l’attenzione sulla giovane età del protagonista. Infatti, la grande novità del Bildungroman rispetto ai generi letterari del passato è data proprio da un nuovo modo di considerare la “giovinezza”. L’”apprendistato” che la caratterizza non è più l’ereditare e il perpetuare la professione e lo stile di vita paterni, ma un tentativo di creare il futuro con le proprie mani; le certezze del destino vengono meno e la vita diviene un viaggio e un’avventura, in cui il protagonista sperimenta situazioni di tutti i generi, vagabondando da un luogo all’altro prima di trovare una collocazione all’interno della società. L’esplorazione quindi si rende necessaria; necessaria perché le nuove leggi economiche del mondo capitalistico rendono poco probabile la continuità generazionale e impongono un nuovo modo di vivere in cui l’individuo deve farsi strada da sé spesso mettendosi in contrasto con gli avi che lo hanno preceduto. Sono questi gli eroi o anti-eroi del Romanticismo, perennemente inquieti e in viaggio. Non è a caso quindi che i protagonisti del Bildungroman siano giovani. In quanto emblema di tale dinamismo e mobilità, cosa se non la gioventù può meglio incarnare le incertezze e le tensioni della società moderna di cui lo stesso giovane protagonista fa parte? Non può sfuggire tuttavia l’elemento contraddittorio insito nella funzione del Bildungroman; contrasto che si acuisce con la rapida evoluzione della tecnica e il formarsi di nuovi equilibri politici ed economici che creano spaesamento nell’individuo. Di fronte a questa realtà in movimento l’idea originaria del Bildungsroman, ovvero la funzione di armonizzazione e di integrazione delle aspirazioni del singolo con i valori della società che lo circonda, viene meno. Tale inadeguatezza si esaspera già nel corso del XIX secolo raggiungendo il suo apice con l’inizio del XX secolo. L’evoluzione del concetto di Io e il suo incontro con la realtà di una crescente industrializzazione non possono più seguire un percorso lineare fatto di tappe progressive. Con l’affermarsi della psicoanalisi e della filosofia nichilista si assiste ad una disintegrazione del soggetto e una rarefazione della realtà che è ben visibile in romanzi come, ad esempio, Der Mann ohne Eigenschaften di Robert Musil. Tuttavia non viene meno il tentativo di cercare una possibile armonia tra soggetto e realtà circostante, una soluzione travagliata che, attraverso un percorso di sofferenza, conduca comunque ad una crescita individuale, in cui il soggetto sia nuovamente un protagonista, malgrado tutto, nella/della società.

Nella prossima parte dedicata al romanzo di formazione che seguirà questa prima introduzione di stampo teorico, tratteremo più da vicino alcuni testi scelti tra i tanti che la letteratura di questi ultimi tre secoli ha prodotto relativamente al Bildungroman.

Le figlie di Eco. Amori impossibili tra letteratura e vita. Parte prima: Adèle Hugo e la ricerca di un’identità.

portrait_presumed_adele_hugo_hidi Chiara Rantini

Comincia con una breve riflessione sulla vita della figlia del celebre scrittore francese, questo itinerario letterario alla scoperta di tre donne che sperimentarono il fascino e il peso della letteratura in prima persona attraverso le loro tormentate relazioni con importanti scrittori e pensatori del XIX e del XX secolo.

Nei prossimi articoli, le protagoniste saranno Felice Bauer, fidanzata e promessa sposa di Franz Kafka e Regine Olsen, fidanzata di Søren Kierkegaard. Adèle Hugo sembra essere un caso a parte, non per la sfortunata relazione, ma per il soggetto del suo amore che non fu un letterato né un uomo di pensiero. Tuttavia, questo amore impossibile fu ciò che maggiormente la portò sul labile confine tra finzione letteraria e vita reale.

journal«Questa cosa incredibile da fare, che una giovane donna, schiava al punto di non poter andare a comprare della carta, vada sul mare, passi dal vecchio al nuovo mondo per raggiungere il proprio amante, questa cosa qui, io la farò. Questa cosa incredibile da fare che una giovane donna che oggi non ha altro che un pezzo di pane datogli in elemosina dal padre, abbia in quattro anni, nelle tasche solo un po’ di denaro giusto per lei, questa cosa io la farò.» (estratto dal “Journal”; trad. mia)

Adèle Hugo nacque a Parigi nel 1830, quinta figlia del celebre scrittore Victor Hugo. Fin da piccola dimostrò particolare disposizione verso la musica e le arti letterarie. Ebbe un’infanzia felice improvvisamente turbata dalla morte, nel 1843, della sorella Léopoldine. Questo lutto segnò particolarmente Adèle e tutta la famiglia. Circa in quello stesso periodo, la madre visse uno stato di depressione e Adèle ne fu particolarmente colpita. Di carattere schivo e riservato fin da piccola, il suo carattere divenne ancora più ombroso in seguito ad un episodio di febbre altissima che fece disperare per la sua vita. Nel 1852 seguì il padre in esilio a Guernesey, ma ben presto fu colta da una profonda depressione che la costrinse al rientro in Francia nel 1858. Nel 1861 si recò in Inghilterra insieme alla madre, nella speranza che la fine dell’isolamento a cui era stata costretta dall’esilio, potesse migliorare la sua situazione psicologica. In Inghilterra incontrò il tenente Pinson di cui s’innamorò totalmente, ma senza speranza poiché non si rivelò un amore profondo e sincero. Pinson fu sedotto dalla bellezza e dall’intelligenza di Adèle ma per lui non fu che un divertissement passeggero; Adèle tuttavia non intese arrendersi tanto facilmente, così seguì Pinson fino ad Halifax in Canada, dove il tenente era stato assegnato. Purtroppo i suoi tentativi di riconquistare l’affetto del suo amato fallirono e, dopo essere stata ripetutamente rifiutata, sprofondò nella follia. Dopo essere passata per le isole Barbados, sempre sulle tracce di Pinson, rientrò in Francia nel 1872 e il padre fu costretto ad internarla nell’ospedale psichiatrico di Saint-Mandé, quindi all’ospedale di Suresnes dove morirà nel 1915, unica tra i figli di Hugo a sopravvivere al padre.

Adèle era la secondogenita di Victor. Non fu mai troppo considerata in famiglia e visse sempre all’ombra del padre (lei avrebbe preferito avere un padre sconosciuto) e della sorella maggiore, la preferita di Victor. Quando essa morì annegata, il padre scrisse la celebre poesia “Demain, dès l ́aube” e Adèle, che era stata gelosa di Léopoldine, finì per essere assalita dai più terribili rimorsi. Il sentirsi rifiutata da tutti e prima ancora dalla sua stessa famiglia, fu una costante della vita di Adèle. Addirittura, per non rovinare la reputazione del padre scrittore, il fratello Charles tenne nascosta l’esistenza della sorella alla futura moglie per tutto il lungo periodo che Adèle trascorse lontano dalla patria. Facciamo però un passo indietro. Quando Adèle giunse ad Halifax era in incognito e, durante il suo soggiorno, cambiò continuamente identità. Ufficialmente questo stratagemma le serviva per non farsi scoprire da Pinson; in realtà, Adèle cancellando la vera identità, stava avviando un processo di annullamento della propria persona. Avere un’identità definita non le serviva più.

Quando Adèle lasciò la Francia, conosceva già il responso della sua storia d’amore. Pinson non la voleva e aveva fatto di tutto per fuggire da lei. Tuttavia non vi fu alcun segno di scoraggiamento da parte della figlia di Hugo: anzi più la realtà sembrava essere contraria alle sue aspettative, maggiore risultava la spinta ad andare avanti. C’è da chiedersi se Adèle fosse ancora veramente innamorata di Pinson o cercasse piuttosto di affermare qualcosa di sé, una sua eccellenza così come il padre aveva fatto nel campo della letteratura, sacrificando anche parte della propria vita privata.

Vista dall’esterno, la storia d’amore di Adèle si caratterizza come un monologo interiore perché nel rapporto con Pinson non esiste alcuna corrispondenza: non potrebbe essere diversamente, dato che la differenza culturale e sociale tra i due amanti è considerevole. Non è con lui che la giovane donna vuole relazionarsi: il riferimento costante di Adèle è la famiglia che è rimasta in Francia. È infatti alla madre e al padre che Adèle deve rendere conto e lo si capisce dalla fitta corrispondenza che intrattiene con loro. Ma c’è un’altra relazione ben più importante, che è rappresentata dal continuo e quasi narcisistico dialogo con se stessa, ben visibile nelle migliaia di pagine scritte nei diari. Pinson, a questo punto, potrebbe anche non esistere più o essere soltanto un’idea perché non è lui, come uomo in particolare, ciò che interessa la giovane figlia di Hugo. Ecco dunque che la vita di Adèle perde il contatto con la realtà e diventa essa stessa letteratura.

La storia di Adèle Hugo fu scoperta nel 1955 quando furono ritrovati per caso i suoi diari. Da questi diari che scrisse con cura maniacale per tutta la sua lunga esistenza, esce il ritratto di una donna che ebbe grande talento nella scrittura ma che non trovò le condizioni storiche e familiari giuste per potersi liberare dalle ombre che turbavano la sua mente. Resta di lei una mole enorme di pagine scritte, alcune foto in bianco e nero e pochi ritratti a cui si aggiunge la superba interpretazione cinematografica a posteriori da parte di Isabelle Adjani nell’indimenticabile film di F. Truffaut “Adèle H. Une histoire d’amour” del 1975. Buona lettura.

Charles Baudelaire, una vita oltre il limite

Charles Baudelaire nacque a Parigi il 09/04/1821 e qui morì il 31/08/1867. Charles_Baudelaire_1855_Nadar
Fu il grande poeta del diciannovesimo secolo, noto per il suo stile di vita bohémien. Autore controverso, pubblicò il capolavoro della letteratura ottocentesca, Les Fleurs du Mal. Questa raccolta di poesie venne condannata e censurata al momento della sua pubblicazione, perché si scontrava fortemente con la morale borghese del tempo. Baudelaire metteva in evidenza la dualità tra bene e male, bruttezza e bellezza, inferno e paradiso.
Rimasto orfano all’età di soli sei anni, non accettò mai il nuovo coniuge della madre e da lì ebbe origine il suo carattere ribelle.
A stento riuscì ad ottenere il suo diploma di maturità. Poi, deliberatamente scelse una vita vagabonda.
La sua famiglia, che poco apprezzava la vita dissoluta del giovane, lo invitò a imbarcarsi nel 1841 a bordo di un vapore per le Indie. Questo suo viaggio ai confini del mondo, ispirò molte delle sue opere.
Baudelaire tornò a Parigi nel 1842 e incontrò Jeanne Duval che divenne la sua amata. Dissipò tutta l’eredità ricevuta dal padre, fatto che spinse la famiglia a metterlo sotto tutela giudiziaria. È questo il periodo in cui comincia a scrivere alcune poesie dei Fleurs du Mal.
Nel 1847 Baudelaire scoprì lo scrittore americano Edgar Allan Poe. Come lui, condivise una stessa concezione dell’arte. Tradusse molte opere dell’autore per farlo conoscere al pubblico francese.
Nel luglio 1857, Baudelaire pubblicò il suo lavoro principale: Les Fleurs du Mal. Questa raccolta di poesie venne subito condannata, costringendo Baudelaire e il suo editore a pagare una somma in denaro. Ci fu una nuova edizione nel 1861, dalla quale vengono cancellate sei poesie per evitare una nuova denuncia ma solo nel maggio 1949 sarà definitivamente annullata la precedente condanna.
Non potendo pagare i debiti, Baudelaire si recò in Belgio a lavorare. In un primo momento fu pieno di speranza per questo nuovo inizio, ma fu rapidamente deluso da questa esperienza. In Belgio cominciarono i primi gravi problemi di salute causati dalla sifilide.
Tornò a Parigi nel luglio del 1866. Morì un anno dopo, all’età di quarantasei anni, per le conseguenze della sifilide, dall’abuso di alcool e di altri farmaci. Cénotaphe de Baudelaire
Baudelaire, che condusse una vita in totale opposizione ai codici morali del suo tempo, è l’immagine stessa del poeta decadente. Non riconosciuto durante la sua vita, fu poi acclamato dai suoi successori: veritable dieu secondo Rimbaud, il primo surrealista per il Breton e il più importante tra i poeti per Valéry.

 

 

 

Lo ricordiamo, nel giorno dell’anniversario della morte, con una delle sue più belle poesie:

L’uomo e il mare

Sempre il mare, uomo libero, amerai!
perché il mare è il tuo specchio; tu contempli
nell’infinito svolgersi dell’onda
l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito
non meno amaro. Godi nel tuffarti
in seno alla tua immagine; l’abbracci
con gli occhi e con le braccia, e a volte il cuore
si distrae dal tuo suono al suon di questo
selvaggio ed indomabile lamento.
Discreti e tenebrosi ambedue siete:
uomo, nessuno ha mai sondato il fondo
dei tuoi abissi; nessuno ha conosciuto,
mare, le tue più intime ricchezze,
tanto gelosi siete d’ogni vostro

segreto. Ma da secoli infiniti
senza rimorso né pietà lottate
fra voi, talmente grande è il vostro amore
per la strage e la morte, o lottatori
eterni, o implacabili fratelli!