Il Cantico dei Cantici. L’amore tra cronaca e segno 

di Daniele Marletta

chagall

L’importante è esagerare, titolava Iannacci. Ma a forza di esagerare è facile dire banalità.
Non ci aspettavamo nulla di particolarmente profondo da una lettura del Cantico dei Cantici fatta da Roberto Benigni. Non è un poeta, non è un esegeta, non è neppure un esperto di letteratura ebraica. Nessuna sorpresa, dunque, per gli imbarazzanti svarioni presi durante il suo spettacolo. Tralasciamo quindi di commentare la sua improbabile traduzione semipornografica e, già che ci siamo, sorvoliamo sul fatto che secondo lui questo Libro sarebbe entrato nel Canone delle Scritture quasi per caso. Sorvoliamo anche sull’inciso politicamente corretto di propaganda omosessualista per cui il Cantico “comprende ogni tipo di amore, anche tra donna e donna, tra uomo e uomo, l’amore per tutto”. Chiudiamo pure benevolmente un occhio su tutto o quasi. D’altra parte, ognuno ha il suo mestiere: se Aristotele si materializzasse tra noi per raccontare una barzelletta, nessuno riuscirebbe a ridere. Certo, Benigni sul palco dell’Ariston è riuscito invece a riscuotere i suoi consensi; a qualcuno è sembrato effettivamente profondo, e questo è di sicuro un inquietante segno dei tempi. Ma tralasciamo anche questo.

C’è una cosa, però, che non si può tralasciare, ed è proprio il fulcro su cui ruota tutta l’esposizione del Cantico che abbiamo udito dal nostro “piccolo diavolo”. Questo libro sarebbe infatti secondo Benigni un canto (o “una canzone”, come lui lo ha definito) solamente umano, solamente erotico. Solo una storia d’amore, un po’ alla Je t’ame… moi non plus di Serge Gainsbourg, con tanto di sospiri e gridolini. Siamo sicuri che il Cantico sia solo questo? È solo come canto erotico che è giunto fino a noi? Decisamente, Benigni non si avvede di una cosa semplicissima, e cioè del fatto che, preso così com’è, solo come canto erotico, il Cantico dei Cantici non è questa gran cosa. Se voglio leggere qualcosa di erotico – qualcosa che sia solo erotico – meglio leggere Alfred de Musset, o Il Diavolo in corpo di Radiguet, o magari Le con d’Irene di Luis Aragon. E per chi avesse gusti più facili dei nostri ci sono anche le cinquanta sfumature e l’altra spazzatura che l’industria editoriale vomita ogni anno sugli scaffali delle librerie. Insomma, ridotto alla sua quintessenza erotica – e soltanto erotica – il Cantico dei Cantici è solo un libro tra gli altri libri, appartenente tra l’altro a una cultura molto lontana dalla nostra, quindi anche più difficile da comprendere nelle sue metafore, meno immediato nella comprensione.

Ciò che veramente differenzia il Cantico dei Cantici da tutti gli altri libri erotici è proprio il principio per cui esso è entrato a far parte delle Sacre Scritture. L’idea che l’amore tra l’uomo e la donna possa essere metafora o, meglio ancora, icona dell’amore tra Dio e la Chiesa non è (come crede il comico) una sorta di escamotage per giustificare la presenza di questo strano Libro dentro la Bibbia. Questa idea è al contrario una intuizione assai più profonda, assai più rivoluzionaria di qualsiasi lettura meramente “erotica” del testo: la trasfigurazione dell’Eros; l’Eros che si mostra per quello che è realmente, spiritualmente. D’altra parte, il riferimento alla natura sponsale del rapporto tra Dio e il suo popolo è abbastanza frequente sia nella letteratura profetica che in quella sapienziale. Il Profeta Ezechiele, tanto per fare un esempio, si dilunga nel rappresentare il Popolo eletto che una donna di straordinaria e sensualissima bellezza. E quando i profeti parlano dei tradimenti, delle apostasie di quello stesso popolo, lo fanno sempre attingendo all’immaginario erotico, parlando di adulterio o di prostituzione. È sempre Ezechiele a non farsi problema nel descrivere quelle apostasie proprio rappresentando visivamente Israele nell’atto di prostituirsi alle nazioni straniere: «ad ogni crocicchio ti sei fatta un altare, disonorando la tua bellezza, offrendo il tuo corpo a ogni passante, moltiplicando le tue prostituzioni. Hai concesso i tuoi favori ai figli d’Egitto, tuoi vicini dal grande membro, e hai moltiplicato le tue infedeltà per irritarmi.» (Ez 16, 25-26)

Il Cantico dei Cantici, insomma, lungi dall’essere solo e soltanto “una canzone d’amore”, ci mostra che l’Eros non finisce qui sulla terra, che anzi giunge più in alto di noi, al di là di noi e delle nostre vite transitorie. Il Cantico ci insegna che l’amore umano per l’altro è già – di per sé – richiamo all’Altro e all’Altrove. Al di là della cronaca che la letteratura può farne, l’amore è un segno che ci insegna Dio.

Tra anomalie e resilienza la vita si fa poesia

Le coincidenze significative

di Daniele Marletta

Roberto Crinò, Le coincidenze significative, Ensemble, 2018

Oltre che poeta, Roberto Crinò è autore di canzoni ed egli stesso cantante. Questo trasparisce bene dai testi di questa raccolta non scontata, sebbene a volte acerba.

È una raccolta che ha una attenzione particolare per le parole, una attenzione con qualche eco montaliano, che fonde scrittura poetica e toni a volte prosastici. Molti di questi componimenti potrebbero effettivamente essere canzoni.
Scrive giustamente Maria La Bianca nella Prefazione alla raccolta che sono «proprio loro, le parole così accurate, ad avere voce propria, oltre il sentire di chi fa poesia. Perché questo è il tema delle coincidenze significative, la vita che si fa poesia attraverso l’amore e le sue contraddizioni.»

Emerge nella scrittura di Crinò una sorta di narrazione poetica in cui si mescolano momenti del paesaggio geografico, storico e umano della Sicilia, terra di nascita e residenza dell’autore, con echi del suo passato letterario.

Concludiamo riportando qui di seguito La fenice, componimento di apertura della raccolta.

E Ciàula riemerse,
guidato dalla chiarìa lunare
tornò in superficie,
appena fuori dal tunnel,
posò a terra il pesante carico.

E Ciàula corse,
nella campagna d’argento,
finalmente consapevole,
si portò il fardello delle ferite,
ma non si voltò più indietro.

Dice che partì per l’America,
feroce come un leone,
rinato come la fenice.

Dice che si mise su un treno,
quello che solo la notte,
attraversa i sogni umani.

E Ciàula sorrise,
il pensiero rivolto oltre,
carico di tutti i sospiri
e le sconfitte dei suoi antenati,
celebrò la vita.

E Ciàula pianse,
per tutta la gioia fin lì ignota,
scrutò il grande placido astro
e gli prestò giuramento solenne,
sarebbe stata sempre sua guida,
scintilla, lanterna, nuovo inizio… la Luna!

In quell’oceano di luminoso silenzio,
non aveva più paura del buio,
perché non se lo portava più dentro.
E Ciàula, se ne andò,
Via!

Nel segno della falsificazione storica

 


di Daniele Marletta

Catherine Nixey, Nel nome della croce. La distruzione del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018

Un libro dal titolo commercialmente accattivante, ma che è nei contenuti addirittura peggiore delle aspettative. Nel risvolto di copertina si dice che chi lo ha scritto avrebbe studiato “Storia e Letteratura Classica a Cambridge”, e questo ci fa rivalutare i tanto disprezzati atenei italiani. Il libro, caso raro, sa essere insieme pedante e pedestre: cita un dovizioso numero di fonti, mescolandole però tra loro, e soprattutto confondendo spesso (volutamente?) le fonti tardoantiche con le tardomedievali, in un potpourri di frasi fatte, luoghi comuni, veri e propri travisamenti. Un profluvio di citazioni decontestualizzate e di improbabili aneddoti fatti passare per verità storiche inoppugnabili.

Il libro si apre con la narrazione a tinte fosche della spoliazione e distruzione del Tempio di Atena a Palmira nell’anno 385, e di simili narrazioni è costellato in quasi tutti i capitoli. L’autrice vuole forse mostrare visivamente nella distruzione dei templi la distruzione dell’Era Classica stessa, dimenticando però un fatto essenziale a cui sarà bene fare accenno. Noi uomini del XXI secolo siamo abituati a vedere nella distruzione dei templi un certo fanatismo, soprattutto islamico: vengono in mente, in particolare le grandi statue del Buddha distrutte in Afghanistan dai talebani, o, in anni più recenti, l’operato dell’Isis in Medio Oriente. In effetti, a leggere questo libro, sembra che l’intento dell’autrice sia più che altro quello di mostrare che i cristiani della tarda antichità e del medioevo si sono mostrati fanatici allo stesso livello. L’autrice dimentica forse che il Cristianesimo non si è diffuso nel XXI secolo e che la distruzione del Tempio di Atena a Palmira risale a un’epoca in cui distruggere e depredare i templi altrui era considerato perfettamente normale. Gli stessi romani (la cui tolleranza e civiltà vengono ampiamente decantate nel corso del libro) lo fecero parecchie volte. Ancora oggi gli ebrei di Gerusalemme pregano presso il “Muro del Pianto”, ciò che rimane del loro grande Tempio distrutto e spogliato dei suoi tesori nel 70 d.C. da quel Tito che Svetonio ebbe a definire “amore e delizia del genere umano”. Era il cosiddetto “Secondo Tempio”: il primo, il Tempio di Salomone, era stato distrutto da Nabucodonosor nel 586 a.C.
Per quanto riguarda il rispetto per i templi altrui (ed è tutto quello che il libro riesce effettivamente a dimostrare) i cristiani non seppero essere al di sopra dei loro contemporanei. Fu una colpa? Dal loro punto di vista certamente sì, dal punto di vista dei contemporanei non fu né colpa né merito. Tutto il libro, per il rimanente, segue questa falsariga: si accusano i cristiani di cose che facevano anche i “classici”.

A questo punto è necessario porsi una domanda e fare una riflessione: come mai è tanto di moda il disprezzo del Cristianesimo? Viviamo, ed è sotto gli occhi di tutti, in un’epoca che si pone a tutti gli effetti come post-cristiana. In quasi tutto il mondo occidentale sono in vigore leggi assolutamente contrarie all’ethos cristiano (aborto ed eutanasia, tra le altre). I simboli cristiani spariscono dalle scuole, dagli ospedali e dagli altri luoghi pubblici. Le chiese si spopolano sempre più. Per molti versi si può dire che al mondo occidentale di cristiano non sia rimasto che il nome. Resta comunque il fatto che il Cristianesimo ha svolto un ruolo fondamentale proprio nella formazione di quella che chiamiamo “civiltà occidentale”, ed è un ruolo che è stato indubitabilmente positivo. Per intenderci, anche un documento come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ha dei principi ispiratori cristiani. Cose come la “libertà individuale” o la “libertà di pensiero” sono state teorizzate in un mondo che si professava cristiano, non islamico o buddista.. Ciononostante, misconoscere il ruolo del Cristianesimo nella nostra cultura è un atteggiamento sempre più frequente. Gli intellettuali, per vezzo o per convinzione, tendono sempre più a dichiararsi “laici”, e i pochi che continuano a dichiararsi cristiani sono spesso ridicolizzati o emarginati. I giornalisti (o gli storici dell’arte come la signora Nixey) prestati alla divulgazione storica si dedicano con certosina pazienza al compito di screditare la fede cristiana e la storia del Cristianesimo.

Per chiunque abbia fatto studi storici seri la verità storica è ben diversa da quella presentata in questo libro. La Civiltà Classica non fu affatto distrutta dai cristiani (che al contrario la conservarono in varie forme, sia culturali che istituzionali). Certo, la storia del Cristianesimo non è stata tutta “rose e fiori”, non sono mancate la pagine oscure. Non furono i cristiani, però, a distruggere il mondo classico. Questo, molto più semplicemente, morì di morte naturale, con l’implosione della parte occidentale dell’Impero Romano, per continuare a vivere ancora per qualche secolo (sebbene in forma modificata) nella parte orientale. Può sembrare un paradosso, o magari uno strano segno dei tempi, ma il fatto è che in una cultura come la nostra, sempre pronta a idolatrare l’oggettività scientifica, solo per la fede cristiana si faccia deroga a tale oggettività.

Un pensiero su La resa delle ombre

di Maria Pia Michelini

resadelleombre

 

Chiara Rantini, La resa delle ombre, Alcheringa, Anagni 2018

Lena, Janis e Adrian. Difficile individuare il protagonista principale di questa storia che, pagina dopo pagina rapisce il lettore in un viaggio dentro la mente e l’animo umano. Se Janis conduce i suoi passi su una strada contorta dove si combattono psicosi e innocenza, egoismo e volubilità, paura e fame di amore, Lena, attratta da quest’uomo più grande di lei, decide di non resistere a questo amore incondizionato per lui e accetta ogni conseguenza di questa assurda storia, dove anche Adrian, fratello di Janis è inscindibilmente coinvolto. Janis non può vivere senza Adrian e forse nemmeno il secondo senza il primo. Un legame a tre che più è sofferto più si rafforza, dando vita a un epilogo dove la luce vince sulle ombre.

Il linguaggio è la struttura del libro, pubblicato da Alcheringa edizioni, sono ben equilibrati, senza sbavature ed eccessi. Un libro che esce dalle solite strade battute dai narratori di storie. Un libro che attesta l’indefinibilità degli amori, dell’Amore.

“Siamo tutti in pericolo”. Pasolini quarant’anni dopo.

di Daniele Marletta

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi.” (1) Questa frase un po’ enigmatica e lapidaria Pasolini la pronunciò la sera prima di quel 2 Novembre del 1975 che vide il suo corpo ormai cadavere consegnato agli occhi indiscreti dei giornali. Non sappiamo esattamente quale impressione dovesse averne Furio Colombo nel registrarla, ma possiamo facilmente immaginare l’effetto che essa dovette avere su di lui nei giorni immediatamente successivi. Tutta l’intervista che il giornalista raccolse quella sera era un terribile j’accuse contro l’ordine orrendo della cultura di quegli (e anche di questi nostri) anni: un ”ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere.

Pasolini non è mai stato un autore realmente amato in Italia. Odiato dalla destra, visto con malcelata malevolenza dal mondo cattolico, criticato e osteggiato dalla cultura di sinistra, che aveva in lui certamente uno dei suoi più grandi esponenti, ma anche una poderosa spina nella carne, egli si dimostrò, soprattutto negli anni settanta, come una vera pietra di scandalo della cultura italiana. Se infatti fino ad un certo momento egli era potuto apparire un intellettuale marxista come tanti (come un Moravia o un Fortini qualunque), gli ultimi suoi anni mostrano una progressiva chiarificazione di pensiero, che sempre più fa di lui un corpo estraneo nel dibattito culturale del tempo.

Pasolini non fu mai marxista nel significato pieno e autentico della parola. La sua adesione al Partito Comunista (dal quale egli venne comunque radiato già nel 1953) fu dettata più da un sentimento di religiosa vicinanza alle classi oppresse che non all’idea della lotta di classe. Questo era chiaro in realtà già vent’anni prima di quella sua ultima intervista, ci basta aprire i suoi libri per capirlo:


attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica…(2)


E’ a Gramsci che il poeta rivolge queste parole. Già al tempo delle Ceneri Pasolini si dimostra una “forza del passato”, o, per dirla meglio, un “inattuale”. E tale è rimasto. Nessun erede, nessun autentico continuatore.

Massimiliano Parente ha scritto che “Pasolini è un santino, il simbolo che rappresenta l’intellettuale impegnato, il mix tra marxismo e cristianesimo. A parte i suoi romanzi, che sono illeggibili, era perfino antiabortista, e il suo “io so” è tipico dell’italiano medio complottista che non sa nulla, ma manderebbe in galera chiunque.”(3) E’ abbastanza frequente che autori generalmente poco significativi provino a cercare un po’ di popolarità giocando a fare gli iconoclasti (in questo caso con una icona della cultura italiana) Questo giudizio lapidario di Parente ci ricorda d’altra parte quello ugualmente lapidario del ben più noto André Frossard:


“Ci dicono che questo celebre cineasta italiano, ora morto in condizioni particolarmente sinistre, non ha mai cessato, durante la sua vita, di proclamare il suo non conformismo. In effetti: leggo la sua biografia ed apprendo che egli si rifaceva al marxismo, il che è di una originalità folle e quasi scandalosa oggi, soprattutto tra gli intellettuali, soprattutto in Italia, dove non c’è più di un marxista su due elettori. Egli ha ottenuto per ben due volte il gran premio dell’Ufficio cattolico del cinema, di cui tutti sanno che è pieno di acrobati rivoluzionari la cui reputazione di ardimento è ormai consolidata. Infine, il suo ultimo film, che sarà presentato tra qualche giorno, è un adattamento delle Centoventi giornate di Sodoma di quel caro vecchio marchese de Sade le cui care vecchie manie ispirano due cineasti su tre. Bisogna convenire che è impossibile portare il nonconformismo più avanti di così senza cadere nell’insignificanza, a forza di esagerazione.” (4)

Non sappiamo se Frossard si sia mai dato la pena di leggere qualcosa di Pasolini. Di certo tra le pagine delle sue Lettere luterane avrebbe potuto trovare la chiave di interpretazione del suo nonconformismo, che fu un nonconformismo del tutto peculiare. Dobbiamo però a Frossard per lo meno un favore: il suo giudizio caustico causò una risposta da parte di un altro intellettuale italiano, rimasto anche lui senza eredi. Leonardo Sciascia, proprio in risposta all’articolo di Frossard pubblicò infatti su Rinascita quello che è forse il più lucido tentativo di lettura del poeta delle Ceneri.

“C’è del conformismo nel proclamarsi marxista, e specialmente in Italia; c’è del conformismo e non c’è alcuna originalità nel continuare ad essere cattolico in un paese cattolico; c’è del conformismo e molta banalità nel manipolare per il cinema le care vecchie manie del caro vecchio marchese de Sade: ma questi tre conformismi messi insieme, e vissuti per come Pasolini li ha vissuti, hanno prodotto un tragico, disperato anticonformismo; un risultato tra i più significativi e duraturi (duraturo nel senso che anche se Pasolini sarà dimenticato in esso ci dibatteremo ancora per molti anni) del nostro tempo.” (5)

E’ proprio a partire dalle care vecchie manie del caro vecchio marchese de Sade che i tre conformismi di Pasolini diventano qualcosa di assolutamente nuovo per quegli anni, che rimane assolutamente nuovo ed inedito anche ai nostri giorni. Il terribile Salò-Sade è innanzitutto un film che parla di salvezza, e lo fa da un punto di vista che è assolutamente cristiano. “Dio perché ci hai abbandonati?” urla nel film una delle vittime. Quella domanda è il punto-chiave del film, e probabilmente anche la chiave dell’intera produzione pasoliniana.


“Siamo tutti in pericolo”, dunque, come diceva il poeta al termine di quella intervista. Il male, l’inferno, sale a noi nelle forme più diverse, dalla desacralizzazione della vita alla sua contabilizzazione: tutto si fa moneta, tutto si fa interesse. Nel ciclo di produzione e consumo sembra che non ci sia posto per nient’altro che l’idea di possedere e quella di distruggere. Questa è l’inattualità di Pasolini. Resta soltanto da porci una domanda: chi è disposto, oggi, ad ascoltare un messaggio del genere?


(1) Intervista tratta da Tuttolibri, settimanale d’informazione edito da La Stampa, pubblicata l’8 novembre del 1975, a pagg. 3- 4

(2) Le ceneri di Gramsci, in P. P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, 1993, p. 228

(3)  Massimiliano Parente: quanto è bello farsi odiare da tutti
http://archivio.panorama.it/cultura/libri/Massimiliano-Parente-quanto-e-bello-farsi-odiare-da-tutti

(4) André Frossard, Non conforme, su “Le Figaro”, 4 Novembre 1975 (Citato in Leonardo Sciascia, Dio dietro Sade, in “Rinascita” n. 49 – 12 Dicembre – 1975, p. 31)

(5) Ivi

«Noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza…»

di Daniele Marletta

La Rosa Bianca. Giovani contro Hitler

«Una giornata di sole così bella, e io me ne devo andare. Ma quanti non sono quelli che oggi muoiono sul campo di battaglia. Che importa la mia morte se le nostre azioni saranno servite a scuotere e a risvegliare gli uomini.» È il 22 Febbraio del 1943. In una cella del carcere di massima sicurezza di Stadelheim, Sophie Scholl, appena ventunenne, così si confida con la compagna di prigionia appena conosciuta. Morirà di lì a poco, dopo aver pregato e aver ricevuto la comunione, da fervente luterana, sotto la lama della ghigliottina. Dopo di lei, la stessa lama cadrà sull’amico Christoph Probst, e poi, nuovamente sull’amato fratello Hans. È la conclusione inevitabile del primo processo contro la «Rosa Bianca». Ha visto recentemente la luce, per i tipi della Claudiana, un nuovo libro sul gruppo di resistenza antinazista della Rosa Bianca, al quale era stato dedicato nel 2005 un bel film di Marc Rothemund. Il libro,  La Rosa Bianca. Giovani contro Hitler di Lorenzo Tibaldo, è un volumetto agile e sintetico, una sorta di galleria di quadri umani. I giovani Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf, così come Kurt Huber, insegnante universitario di filosofia, sono il cuore pulsante della Rosa Bianca, gruppo di resistenza cristiana al Nazismo. Tutti segnati da un identico destino, tutti caduti sotto la lama della ghigliottina, rei di alto tradimento contro il Fuhrer e la nazione tedesca. Il libro li passa in rassegna, riportando per ognuno di loro la storia, le influenze culturali e spirituali, i tratti umani. Il lettore è così accompagnato a scoprire l’amore di Sophie per la natura, la dirittura morale di Hans, la religiosità profonda di Alexander (recentemente canonizzato dalla Chiesa Russa) e di Christoph, così come quella di Willi, l’amore per il sapere del professor Huber. Il libro si apre con una pagina di Sophie, una lettera all’amica Lisa, vergata il 17 Febbraio del 1943. Nella lettera la giovane esprime tutto il suo trasporto di amore per l’arte e la natura, dopo l’ascolto di un quintetto di Schubert al grammofono. E’ una pagina, come scrive Paolo Ghezzi nella sua ‘Prefazione’ al volume, «traboccante giovanile passione». Solo il giorno successivo, Sophie sarebbe stata arrestata assieme al fratello per aver diffuso nell’Università di monaco alcuni volantini di resistenza al Nazismo. Sei furono i volantini prodotti dai giovani resistenti. Stampati con un ciclostile venivano in seguito inviati per posta a nominativi presi dagli elenchi telefonici. Alcuni di essi erano stati intercettati e i fratelli Scholl erano già sotto controllo. Lo sapevano bene, tanto che, appena due giorni prima dell’arresto, Sophie ebbe ad affermare: «cadono troppi uomini per questo regime, è ora che ne cada qualcuno contro.» (p. 149) Al primo processo, che vide condannati a morte i fratelli Scholl e Christoph Probst, altri ne seguirono, fino ad abbattere il nucleo originario della Rosa Bianca e a renderne inoffensivi i simpatizzanti.. Quasi tutti i membri del gruppo sono poco più che ragazzi, tutti animati da una grande passione civile oltre che da una profonda fede religiosa. Nel leggere queste pagine ci si chiede quanto servirebbe ancora oggi una simile testimonianza. Sebbene i tempi siano cambiati, sebbene non sembri profilarsi all’orizzonte nessun pericolo totalitario (se non altro, non nel senso e nella proporzione che ebbero le grandi dittature del XX secolo) oggi più che mai si vede come spesso proprio la passione civile e la fede religiosa difettino alle ultime generazioni, quelle nate ormai dopo le guerre, dopo gli sforzi per la ricostruzione materiale e morale del paese. Soprattutto laddove non difetta l’una è spesso assente l’altra. Così, o ci si dedica alle battaglie civili laicamente, senza voler trovare per esse alcuna motivazione morale o spirituale, o ci si dedica alla vita di fede senza volerne mettere in pratica le inevitabili conseguenze sociali e politiche. Chissà cosa avrebbero pensato i giovani della Rosa Bianca delle varie generazioni che si sono susseguite nei nostri ultimi cinquant’anni. Loro avevano intravisto nel loro tempo, nella loro battaglia, non soltanto una questione di libertà politica e sociale, ma qualcosa di infinitamente più profondo. Dietro quella che, seguendo una geniale definizione di Annah Arendt, siamo soliti dire la ‘banalità del male’ si cela qualcosa di più profondo, e ben lo sapevano questi ragazzi: «Ogni parola che esce dalla bocca di Hitler è una menzogna. Quando egli parla di pace pensa alla guerra, quando egli in modo blasfemo pronuncia il nome dell’Onnipotente, si riferisce invece alla potenza del Male, agli angeli caduti, a Satana. La sua bocca è come l’ingresso fetido dell’inferno ed il suo potere è corrotto nel più profondo. È ben vero che si deve portare avanti con metodi razionali la lotta contro lo stato terroristico ; ma chi oggi dubita ancora sulla reale esistenza di forze demoniache, non ha assolutamente capito lo sfondo metafisico di questa guerra» (così si legge nel quarto volantino della Rosa Bianca). Chissà cosa avrebbero detto, viene da chiedersi, di un mondo in cui ‘destra’ e ‘sinistra’ si spartiscono i valori cristiani piegandoli al proprio interesse. Chissà cosa avrebbero detto di quei cristiani che credono di poter stare ‘a destra’ o ‘a sinistra’, o magari più salomonicamente ‘al centro’ e scambiano a volte per cristiane idee che al massimo sono soltanto delle rispettabilissime posizioni politiche. Non lo sappiamo. Ci piace pensare che le loro parole sarebbero state semplicemente quelle con cui si chiude il loro quarto volantino: «Noi non taceremo, noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza; la Rosa Bianca non vi darà pace.»

Lorenzo Tibaldo, La Rosa Bianca. Giovani contro Hitler, Torino, Claudiana, 2014

Crisi religiosa e sradicamento socio-culturale in Simone Weil

di Chiara Rantini


Simone Weil

Introduzione

Il pensiero di Simone Weil si presenta al lettore nella veste di una semplice e nuda espressione: di lei infatti possiamo dire che l’anima, il pensiero, l’espressione e la vita costituiscono un blocco unico. Parimenti, sarebbe errato cercare nei suoi scritti una filosofia o un sistema personale; seppure, spesso, siamo in presenza di un’acuta analisi di questioni riguardanti la società, la politica o la religione, mai, però, lo sforzo è finalizzato ad un gioco intellettuale o alla ricerca di una qualche idealità. Anzi tutta l’opera di Simone Weil si muove nella direzione di un progressivo smascheramento degli  idola, siano essi sociali o del pensiero; la scrittura stessa è impregnata di un profondo desiderio di purificazione interiore e di affrancamento dalla legge che governa questo mondo, la pesanteur. A questo proposito, seguendo il titolo di un suo noto scritto, La pesanteur et la grâce, possiamo dire che l’intera sua opera si incentra sull’opposizione di questi due estremi. Simone Weil applica questa visione particolare all’interpretazione e comprensione dei problemi, specificatamente al problema dell’uomo.

La pesanteur è quella forza che segna la distanza tra l’uomo e Dio. Riconoscerla come presente nel mondo è un atto dovuto, ma volerla accrescere o, semplicemente, desiderare la sua conservazione è ciò che condanna l’uomo ad
essere separato ed opposto a Dio. Quando l’esistenza recalcitra davanti ai modelli della ritrazione di Dio dal cosmo da una parte, e della kenosi di Cristo nel mondo dall’altra, l’universo della forza e dell’istinto di sopraffazione prendono vigore, radicandosi nella volontà, nel sogno, nell’immaginazione e nella costruzione degli idoli sociali e personali. Difatti, la desolazione e lo sradicamento (altro tema caro alla Weil) prodottosi nella società europea nel periodo compreso tra le due guerre, sono l’ovvia conseguenza del prevalere della forza.

La nostra indagine verterà quindi sull’analisi di alcuni aspetti sociali, religiosi e politici della civiltà europea a partire da questa trama di rapporti.

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1) Lo sradicamento come malattia sociale

Tra il 1942 ed il 1943, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, Simone Weil, esonerata, suo malgrado, per ragioni fisiche, dalle operazioni belliche più pericolose, e costretta a lavori d’ufficio a Londra (esame di testi destinati a confluire nella futura Costituzione francese), elabora una delle sue opere più dolorosamente lucide: L’enracinement[1]. Lo sradicamento, e con esso la crisi religiosa e culturale della nostra civiltà, sono secondo la Weil il risultato della via percorsa dall’Occidente nell’età moderna. Col mettere l’uomo (anzi l’Uomo) al centro del mondo, si è tradito prima di tutto l’uomo stesso. L’uomo, per la pensatrice francese, ha perduto le proprie radici, è, per usare un termine marxiano che ha potuto incontrare nel nostro secolo una discreta fortuna, alienato. Il radicamento resta quindi il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana[2], l’ultimo baluardo dell’identità collettiva ed  individuale.

Lo sradicamento culturale della civiltà occidentale ha origine, potremmo dire, con l’età moderna. Il riferimento immediato è al Rinascimento, vale a dire a quel periodo storico in cui si opera la frattura tra la cultura alta che si
pratica nelle corti e la tradizione culturale patrimonio della nazione e del popolo.

Col risultato di una cultura che si è sviluppata in un ambiente ristretto, separato dal mondo, in un’atmosfera limitata; una cultura orientata notevolmente verso la tecnica e influenzata da essa, assai tinta di pragmatismo, resa frammentaria dalla specializzazione, priva sia del contatto col mondo di qua sia di ogni apertura verso il mondo ultraterreno.[3]

Lo sradicamento è un fenomeno che si lega strettamente al tema della forza; i veicoli della sua diffusione all’interno del corpo sociale, sono il danaro e la sete di conquista. Il desiderio di accrescere la propria ricchezza prevale su
ogni altro movente, distruggendo così le radici di una vita o di un popolo. Protagonista di questo scempio è lo stato moderno o, più precisamente la concezione di stato formulatasi all’interno dell’impero romano e più recentemente riproposta dalle audaci teorie di Richelieu, sino alle espressioni oltremodo imperialiste e totalitarie che caratterizzarono i governi napoleonici e, nel presente, i governi fascisti. La prima guerra mondiale , con i suoi esiti funesti sulla già delicata congerie storica europea, costituisce il fattore più significativo del processo di sradicamento. Un primo campanello di allarme è riscontrabile nel dilagare dello spirito rivoluzionario, dietro al cui spettro, spesso, si cela l’intenzione propagandistica di recidere il legame con il passato.

Col nome di rivoluzione e spesso con parole d’ordine e temi di propaganda identici si dissimulano due concezioni assolutamente opposte. L’una consiste nel trasformare la società in modo che gli operai possano avervi radici; l’altra consiste nel diffondere in tutta la società la malattia dello sradicamento che è inflitta agli operai.[4]

Ma è, senza dubbio, proprio l’esperienza della grande guerra ad insinuare nelle masse il morbo dell’irrealtà.[5]
La guerra infatti, con le sue luci, i suoi rumori prima di allora sconosciuti, si è abbattuta con la potenza dell’ignoto, del terribile, del fantastico. Le nuove armi si sono fatte strumenti, oltre che di morte, di smisurato prestigio; un contadino qualsiasi abituato a sottostare ai ritmi della natura, improvvisamente diviene artefice e manovratore di una forza che lo colloca ben al di sopra della natura stessa. Siamo qui in presenza della rottura di un equilibrio su cui tutta una civiltà era sorta, o meglio, la guerra ha rappresentato soltanto l’epigono di tale rottura, la cui prima incrinazione risale al tempo della rivoluzione francese, quando il prolungato abuso dell’autorità legittima genera la rottura del concetto stesso di legittimità, suscitando così l’idea del progresso come motore di una società tutta proiettata nell’avvenire.[6] Il progresso è l’idea atea per eccellenza e, come tale, è cara al pensiero materialista e rivoluzionario. Essa è atea in  quanto implica che la mediocrità (l’uomo) possa con le sole sue forze generare il migliore; affermare un tale principio, oltre a negare la verità dell’esperienza della corruzione della materia, sposta l’idea stessa di perfezione da Dio all’uomo.

Il materialismo ateo è necessariamente rivoluzionario, poiché per disporsi verso un bene assoluto terrestre, è necessario porlo nell’avvenire. Perchè questo slancio sia completo, si rende indispensabile un mediatore tra la perfezione futura e il presente. Questo mediatore è il capo: Lenin, ecc. Egli è infallibile e perfettamente puro. Attraversando il suo essere, il male si muta in bene. Bisogna essere così, o amare Dio, o lasciarsi in balia del poco male e del poco bene della vita quotidiana.[7]

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2)Il confronto tra scienza e fede

Nel XVII secolo c’è, per Simone Weil un cambiamento radicale nel modo di concepire la scienza e, al suo seguito, la tecnica. La scienza diverrà in breve una delle maggiori cause della irreligiosità dell’uomo moderno:

Non la scienza, se si vuol essere precisi, ma la scienza moderna. I greci possedevano una scienza che è il fondamento della nostra. Comprendeva l’aritmetica, la geometria, l’algebra in una loro forma propria, l’astronomia, la meccanica, la fisica, la biologia. La quantità delle conoscenze era naturalmente molto minore della nostra. Ma per carattere scientifico, nel significato che questa parola ha oggi per noi,  secondo criteri validi per noi, quella scienza era pari e anche superiore alla nostra. Era più esetta più precisa più rigorosa. L’uso della dimostrazione e del metodo sperimentale erano concepiti ambedue con una chiarezza perfetta.[8]

In particolare ciò che segna la differenza tra la concezione della scienza antica e quella moderna, almeno dal Rinascimento in poi, è l’assenza della bontà del movente.

Perché quanto è il bene posto nel movente, tanto, e non di più, sarà quello contenuto nella cosa. La parabola di Cristo a proposito degli alberi e dei frutti ce lo assicura.[9]

La ricerca scientifica contemporanea non persegue l’amore per la verità, si orienta unicamente nella direzione dell’acquisizione delle conoscenze. Ma non sempre, l’estensione del sapere si coniuga ad un avvicinamento alla verità;
questo avviene soltanto nel caso in cui l’oggetto della ricerca sia ciò che si ami.

Quanto al posto importante occupato dalla tecnica nella scienza moderna è cosa nota ed è per Simone Weil il segno di una decadenza culturale.

Quanto alle applicazioni tecniche, se la scienza greca non ne ha prodotte molte, non fu già perchè non ne fosse capace, bensì perchè gli scienziati greci non le volevano. Costoro, apparentemento molto arretrati rispetto a noi, come parrebbe naturale in uomini di venticinque secoli fa, rifiutavano gli effetti di invenzioni tecniche capaci di essere impiegate dai tiranni o conquistatori. Così invece di offrire al pubblico il maggior numero possibile di scoperte tecniche e di venderle al maggior offerente, essi mantenevano rigorosamente segrete quelle che capitava loro di fare per svago; e verosimilmente rimanevano poveri. Ma Archimede una volta pose in opera la sua scienza tecnica per difendere la patria. La impiegò lui stesso senza svelare a nessuno alcun segreto. (…)
Ora, quella scienza, altrettanto più scientifica della nostra, non era affetto materialista. Anzi, non era uno studio profano. I greci la consideravano come studio religioso.[10]

Il pragmatismo, il materialismo hanno quindi corrotto la purezza della scienza, creando così una frattura insanabile con la fede. Ora, poiché la fede è proprio la certezza che il bene è unico[11] ed essendo l’idea della scienza quella di uno studio il cui oggetto è posto al di fuori del bene e del male, soprattutto al di fuori del bene[12], si deve concludere che le due concezioni sono incompatibili.

Le applicazioni della tecnica potrebbero essere in sè anche positive, se gli scienziati, come i politici con la storia, non fossero ossessionati dall’idea del prestigio e soprattutto da ciò che questa idea comporta: il sentirsi grande e potente. La tecnica, oltretutto, come segno distintivo dell’Occidente civilizzato, ha permesso che, per le popolazioni sottomesse delle colonie, fosse possibile, se non identificare, perlomeno, porre dalla medesima parte civilizzazione e predominio della forza. La scienza e la tecnica hanno contribuito alla rottura degli equilibri, non solo europei, ma addirittura mondiali, introducendo così il senso di frammentazione, quel malessere diffuso che tanta parte ha avuto nel pensiero novecentesco.

La scienza moderna, infatti, non vede il mondo come un tutto unitario: isola i fenomeni naturali, li astrae per meglio studiarli, perdendo così lo sguardo d’insieme, perdendo di vista quella profonda armonia e bellezza dell’universo contemplata dalla scienza greca antica[13], e nel Medioevo dall’Alchimia. Anche nell’accezione weiliana, la scienza è la “contemplazione della bellezza del mondo”. Nella sua concezione moderna, la scienza è inoltre eticamente neutra e con questa apparentemente innoqua neutralità avranno inizio quei sogni faustiani di dominio supremo sulla natura che sembrano essere più che mai vivi nella mente di molti scienziati del nostro tempo.

Con la Rivoluzione industriale, alla fine del ‘700, cambia inoltre, e cambia radicalmente, il modo di concepire il lavoro umano. Con l’industrializzazione, folle sempre più numerose di braccianti abbandonano le campagne per lavorare nelle industrie dei grandi centri urbani. Qui il lavoro non è scandito dalle stagioni dell’anno, nè tantomeno dalle festività religiose: non è dunque più il lavoro ad adattarsi ai ritmi biologici e spirituali dell’uomo, ma, al contrario, è l’uomo a doversi adattare ai cicli della macchina. Non si può a questo punto non pensare ad una scena celeberrima di Tempi moderni con Charlot intrappolato in un intricato groviglio di ingrannaggi. L’operaio diventa in certo qual modo anch’egli una macchina: a differenza dell’artigiano, non conosce il proprio lavoro ma lo svolge meccanicamente:

Beninteso, l’operaio ignora l’uso d’ogni singolo pezzo: 1) il modo col quale si combina con gli altri; 2) la successione delle operazioni compiute su di esso; 3) l’uso conclusivo dell’insieme. Ma c’è di più: non è  afferrato il rapporto di cause e di effetti nel corso del lavoro. Non c’è nulla che sia meno istruttivo d’una macchina…[14].

L’operaio, in primis, ma pure l’uomo comune, sperimenta, quotidianamente il contatto con un mondo dominato dall’artificialità, dalla frantumazione dei processi e dalla meccanicità delle azioni. Il campo visivo della realtà si deforma, rendendo sempre più complessa la distinzione tra ciò che è irreale e ciò che non lo è.

Questo è più vero per gli intellettuali “scientifici”, e anche più per gli operai, che vivono tutta la vita in un universo artificiale prodotto dalle applicazioni della scienza.[15]

Non può non far riflettere la contiguità delle tesi weiliane con quelle di certi esponenti della Scuola di Francoforte, che cominciava in quegli anni ad operare. Delle condizioni disumane e soprattutto disumanizzanti del lavoro di fabbrica Simone Weil fu daltronde testimone privilegiata, avendole sperimentate sulla propria pelle tra 1934 e il 1935. Di questa esperienza è documento significativo il Diario di fabbrica[16] che, nella sua immediatezza stilistica, è una delle più acute e lucide analisi della condizione del lavoro nella società industriale.

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3)    Crisi religiosa, totalitarismi e fede cristiana

Per questo, oggi la religione è una pratica della domenica mattina. Il resto della settimana è dominato dalla mentalità scientifica.
(…)
Fra i cristiani, l’incompatibilità assoluta fra la mentalità religiosa e quella scientifica, alle quali simultaneamente aderiscono, fa esistere nell’anima loro un continuo, sordo e incoffessato malessere.(…) Vieta la coesione interiore. Si oppone a che la luce cristiana investa tutti i pensieri.[17]

Il fenomeno dell’irreligiosità popolare, come già abbiamo affermato nel precedente paragrafo relativo alla scienza, scaturisce dal mutare della mentalità; una mentalità che non ha più radici nella tradizione del passato, e di cui la religione costituiva, indubbiamente, l’essenza. La religione si è ridotta ad essere un fatto privato e, dal momento che adesso occupa un dimensione alquanto modesta nel corso dell’esistenza umana, non può avere alcuna parte nel mondo del lavoro, dell’istruzione e della cultura. L’edificazione di una spiritualità del lavoro costituisce , per la Weil, la missione per eccellenza di cui la nostra epoca deve farsi assolutamente carico. La pensatrice francese, che aveva fatto la diretta esperienza del lavoro nei campi e nelle fabbriche, era consapevole del pericolo in cui sarebbero incorse le masse contadine ed operaie, se la religione, vuotandosi di significato a causa della scienza e dello sradicamento, si fosse ridotta ad essere un insieme di convenzioni, come già da tempo era per la classe borghese. Di qui, la critica
serrata rivolta al laicismo oltranzista praticato nelle scuole, e soprattutto nelle scuole di campagna.

Basterebbe dire ai futuri insegnanti e ai futuri professori: la religione ha avuto in ogni tempo e in ogni paese , con la recentissima eccezione di alcuni paesi europei, una funzione dominante nello sviluppo della cultura, del pensiero, della civiltà umana. Una scuola dove non si parli mai di religione è un’assurdità. D’altra parte, come nelle lezioni di storia si parla molto della Francia ai giovani francesi, così è naturale che essendo in Europa, se si parla di religione, si debba soprattutto discorrere di  cristianesimo.[18]

Simone Weil studia, in particolare, la delicata situazione della Francia rurale, dedicando un intero testo – Il cristianesimo e la vita nei campi [19] all’analisi dei rapporti, appunto, tra la fede cristiana e l’esistenza rurale.

Un villaggio cristiano è un paese in cui gli abitanti vanno a messa di domenica e proibiscono ai bambini di bestemmiare.
La noia è la lebbra morale che corrode le campagne di oggi (anche le città, d’altronde). I contadini cercano di rimediarvi o concentrando la loro attenzione sull’accumulazione del denaro (sempre che ne abbiano la possibilità) o tuffandosi nella ricerca febbrile del piacere, alla domenica.
(…)
Si dice che il lavoro sia una preghiera. È facile da dirsi. ma in realtà è vero soltanto a certe condizioni, che raramente si realizzano.[20]

In questo testo, Simone Weil, oltre ad elencare una serie di proposte concrete concepite con lo scopo di permettere la penetrazione del messaggio evangelico nell’esistenza di ogni giorno dei contadini, afferma un concetto fondamentale per comprendere in profondità il suo pensiero; si allude qui ad una particolare riforma che operi nella più larga misura possibile a trasformare la vita quotidiana in una metafora di significato divino, in una parabola.[21]

Per il contadino capace di meditare in questo modo, le ore della semina sarebbero veramente ore di preghiera, perfetta come quella che un qualunque monaco recita nella sua cella; il lavoro non ne soffrirebbe affatto in quanto l’attenzione del contadino sarebbe rivolta su di esso.[22]

Simone Weil auspica un cambiamento in seno alla società in direzione dell’acquisizione di una capacità di interpretazione dei simboli tale da permettere di leggere le verità divine nelle circostanze della vita quotidiana e del lavoro.[23] Ma, per realizzare tale progetto occorre che il cristianesimo penetri in profondità in modo che:

(…) ogni categoria sociale [ possa avere] un suo legame specifico, unico, inimitabile con Cristo. (…)
Come la vita religiosa è ripartita in ordini corrispondenti a specifiche vocazioni, così la vita sociale  dovrebbe apparire come un’organizzazione di vocazioni distinte, tutte convergenti in Cristo.[24]

La visione cristocentrica della Weil copre l’intero ambito dell’esperienza umana, dalla sfera individuale all’organizzazione della società. Tale principio implica la presenza costante dell’elemento soprannaturale e mistico; ma l’errore compiuto dall’umanità del XX secolo -le accuse si rivolgono, in particolare, all’umanesimo ed al laicismo, senza tralasciare le pesanti responsabilità della Chiesa, della cui discussione ci occuperemo nelle pagine seguenti- è proprio quella di aver escluso, persino dalla credenza, l’ambito del soprannaturale. La religione, oltre ad essere divenuta una pratica della domenica, ha assunto connotati ideologici, trasformandosi in una sorta di partito politico
per cui schierarsi o contro di cui lottare.[25]

La società europea, soprattutto in questo ultimo secolo, si è resa sempre più distante dalla verità del cristianesimo, in quanto l’idea stessa di divinità è profondamente mutata. Al Dio disprezzato ed umiliato, alla fede concepita come
bellezza che nutre[26] si è sostituito il culto della grandezza e della forza, l’adorazione del  grosso animale, la fedeltà all’ideale sociale. Di questo processo è oltremodo emblematico il travisamento in cui è incorsa la definizione stessa di
“mistico”.

Dobbiamo proprio aver dimenticato affatto queste cose, se abbiamo potuto credere cristiano un Bergson; lui, che credeva di scorgere nell’energia dei mistici la forma compiuta di quell’élan vital che idolatrava. Mentre, nel caso dei mistici e dei santi, lo straordinario non è già che essi abbiano più vita o una vita più intensa degli altri, ma che in costoro la verità è divenuta vita. (…)
… questa servitù è stata eretta in forma di dottrina col nome di pragmatismo, e la filosofia di Bergson è una forma di pragmatismo.[27]

Questa situazione di decadenza dello spirito ha certamente favorito l’instaurarsi di regimi totalitari. Simone Weil dedica un intero saggio alla trattazione del problema, in particolare, alle vicende storiche della Germania nazista.[28] Qui, la pensatrice francese vaglia, con attenzione, i precedenti dell’idea del totalitarismo, individuando, nella Roma imperiale e nella Francia dell’ Ancien Régime, i modelli a cui Hitler si ispirò. Le tecniche di gestione del potere, le strategie militari utilizzate dai romani, nella visione della Weil, quasi coincidono con quelle ordite dai nazisti.

Ciò che Hitler ha aggiunto di specificamente germanico alle tradizioni romane è solo letteratura e mitologia inventata di sana pianta. Saremmo singolarmente stupidi, ancora più stupidi dei giovani hitleriani, se prendessimo anche minimamente sul serio il culto di Wotan, il romanticismo neo-wagneriano, la religione del sangue e della terra, e credessimo che il razzismo sia una cosa diversa da un nome un po’ più romantico del nazionalismo.[29]

Lo spirito nazista è, nella sua essenza, antireligioso, antifilosofico, antigiuridico, eppure, come a Roma in età imperiale, la religione diviene uno strumento di amplificazione del prestigio dello stato. In realtà, lo spirito religioso autentico è, qui, del tutto assente; al suo posto resta quella che Simone Weil definisce idolatria dello stato.

Ma, caratteristica che si ritrova oggi solo nelle dittature totalitarie della Germania e della Russia, lo Stato era parimenti l’unico oggetto delle aspirazioni spirituali, l’unico oggetto di adorazione.[30]

Per questo, l’idolatria è la forma religiosa per eccellenza dei totalitarismi. L’idolatria nasce da una mancanza o da un’insufficienza di attenzione soprannaturale; l’uomo che si trova in tale condizione, desiderando volgersi verso il Bene assoluto, cade nell’adorazione di un ordine (lo stato, il partito, un capo carismatico) che non appartiene al soprannaturale.[31]

Per comprendere quanto sia antireligiosa l’ideologia nazista, è sufficiente considerare la sua completa estraneità ai concetti di bene e di salvezza dell’anima; per questo motivo, il nazismo è oltremodo anticristiano.

Dello spirito giudaico, conserva invece l’idea di elezione; a questo proposito, il concetto di razza è ciò che maggiormente può accostarsi a tale idea: il lebensraum, il desiderio di espansione ne è l’esito necessario.

In realtà, il potere dello stato non si regge unicamente sull’esercizio della forza bensì, anche, sull’idea di prestigio: il prestigio incarna l’aspetto immaginario, non reale della forza, ed attraverso la propaganda, il prestigio ne conserva l’egemonia anche in tempo di pace; il terrore invece rende l’animo credulo.[32] Tutto ciò comporta l’annientamento, pressochè totale, dei valori spirituali.[33] Tuttavia, durante il dominio nazista, come già era avvenuto nell’antica Roma,

…negli sventurati sottomessi a tale regime una sete di spiritualità era latente. Gli imperatori hanno capito sin dall’inizio la necessità di spegnerla con una falsa mistica, nel timore che una mistica autentica sorgesse e sconvolgesse tutto.[34]

Il misticismo, dunque, resta l’unica via di fuga dal totalitarismo. E se, alle origini, il cristianesimo non poteva dirsi contaminato dal morbo idolatrico, in seguito, allorché divenne religione ufficiale dell’Impero, e, soprattutto, quando la Chiesa, nel tardo Medioevo, mostrò il suo volto totalitario, la primitiva “purezza” svanì del tutto, conservandosi soltanto nelle piccole sacche del dissenso (i movimenti ereticali) e nel misticismo. A tale proposito, Simone Weil rivolge pesanti accuse, talvolta eccessive e poco condivisibili, all’istituzione ecclesiale. Di essa, contesta la concezione del potere giurisdizionale, la visione teologica scaturita dal Concilio di Trento e l’uso dell’espressione “anathema sit”, nella cui formulazione, addirittura, individua l’elemento costitutivo dell’ideologia totalitaria.[35]

    Ma quando la religione cristiana fu ufficialmente adottata dall’Impero romano, fu relegato in ombra l’aspetto impersonale di Dio e della provvidenza divina. Si fece di Dio un duplicato dell’imperatore.[36]

Concepire la divinità esclusivamente in termini di potenza e non di Bene[37], equivale a farne un idolo. Perciò, la società europea non potrà mai essere autenticamente cristiana finché la Chiesa non utilizzerà appieno la cultura pagana – da sempre radicata nel continente e le cui tracce sono ben visibili, ad esempio, nel folklor e- per impiantarvi il cristianesimo. Se così fosse stato, Hitler non avrebbe mai potuto servirsi della tradizione pagana teutonica per opporla alla fede nel Cristo. Difatti, per il cristianesimo, il vero nemico non è tanto il paganesimo, quanto l’idolatria del collettivo e del sociale, quella che la Weil definisce l’adorazione del “grosso animale”. Ciò che è da temere del
“collettivo” è questo suo potere di apparire, alla persona umana, come qualcosa di assolutamente trascendente, e, per questo, in un certo senso, divino.[38] Da questo pericolo, avverte la Weil, anche la Chiesa non è esente e, quanto più
sarà marcato il carattere istituzionale, tanto più profondo diventerà il distacco dalla purezza delle origini. Ma se la società giace ormai in preda agli spasimi causati dal morbo idolatrico, la Chiesa può ancora essere la garante e la testimone della verità cristiana.

Siamo realmente malati di idolatria; una malattia così profonda che toglie ai cristiani la capacità di testimoniare per la verità. Nessun dialogo fra sordi può eguagliare, per forza comica, il dibattito fra la cultura moderna e la chiesa. Gli increduli scelgono come argomenti contro la fede cristiana, e in nome dello spirito scientifico, verità che indirettamente o persino direttamente sono evidenti prove della fede. i cristiani non sene avvedono mai, e si sforzano debolmente, in cattiva coscienza e con una pietosa slealtà
intellettuale, di negare quelle verità. Il loro accecamento è la punizione del delitto di idolatria.[39]

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Conclusioni

Cristianesimo e società moderna sono quindi destinati ad essere inconciliabili?

Cosa potrà dunque salvare la civiltà occidentale dall’imminente sua  catastrofe?

Questi gli interrogativi che Simone Weil lascia in eredità spirituale ai posteri. Non un progetto, non una soluzione definitiva, non una facile utopia calcano i suoi scritti. La società moderna sarà malata finché non riuscirà a rendere concreta la possibilità di un cristianesimo incarnato, e con lo scoppio della seconda guerra mondiale questa urgenza si radicalizza, facendosi ancora più necessaria.

Mai, in tutta la storia attualmente conosciuta, c’è stata epoca in cui le anime siano state altrettanto in pericolo come oggi sull’intero globo terrestre. Bisogna che il serpente di bronzo sia di nuovo sollevato affinché chiunque volga lo sguardo ad esso sia salvo.
(…) L’incarnazione del cristianesimo implica una soluzione armoniosa del problema dei rapporti fra individuo e collettività. Armonia in senso pitagorico: giusto equilibrio dei contrari. È precisamente di questo che gli uomini hanno sete oggi.[40]

Soltanto il cristianesimo quindi può offrire l’ancora di salvezza, a condizione che rinunci all’esercizio del totalitarismo, mantenendosi rigorosamente fedele al piano dell’amore soprannaturale.

Se lo facesse, penetrerebbe dappertutto. La Bibbia dice :”La Sapienza penetra dappertutto in forza della sua perfetta purezza”.[41]

Il risanamento della società si opera quindi attraverso il rifiuto della forza, da una parte, ed il recupero di una spiritualità autentica, non prestata ai meccanismi della propaganda, dall’altra. Tre vie si aprono quindi all’uomo
che “attende Dio”: tre vie ed un solo cammino impervio e solitario; questa la sfida gettata all’umanità del XX secolo.

Eppure nella nostra epoca, nei paesi di razza bianca, l’amore per la bellezza del creato è quasi la sola via che permetta a Dio di penetrare in noi, poiché le altre due sono ancora meno accessibili. L’amore e il vero
rispetto delle pratiche religiose sono rari anche tra coloro che si accostano ad esse con assiduità, e quasi inesistenti fra gli altri. I più non ne concepiscono nemmeno la possibilità. Quanto poi all’uso soprannaturale della sventura, della compassione, della gratitudine, non solo è rarissimo, ma, oggi, è diventato quasi incomprensibile. Se ne è quasi persa la nozione; queste parole, anzi, sono ormai usate in senso deteriore.[42]

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[1]Simone Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’etre umaine, Paris, Gallimard, 1949; trad. it.: La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Milano, Leonardo, 1996.
[2]Cfr. L’enracinement… cit. , pp. 49.
[3]Cfr. L’enracinement… cit. , pp. 51.
[4]Cfr L’enracinement… cit. , p. 53.
[5]Cfr. Simone Weil-Joë Bousquet, Corrispondenza, Milano, SE, 1994, p. 32.
[6]Cfr. Simone Weil, La pesanteur et la grâce, Paris, Plon, 1991, pp. 195-6.
[7]Ibid. , p. 196.
[8]Cfr. L’enracinement… cit. , p.210.
[9]Ibid. , p. 216.
[10]Ibid. , pp. 210-11.
[11]Ibid. , p. 217.
[12]Ibid. , p. 218.
[13]Cfr. Su questo argomento soprattutto le ultime pagine dell’Abbozzo di una storia della scienza greca nelle Intuitions pre-chretiénnes: Simone Weil, Intuitions pré-chrétiennes, Paris, La Colombe, 1951; trad. it. in: La Grecia e le intuizioni precristiane, Roma, Borla, 1984, pp. 265-267.
[14]Simone Weil, La condition ouvrière, Paris, Gallimard, 1951; trad. it.: La condizione operaia, Milano, Mondadori, 1990, p.91.
[15]Cfr. L’enracinement…, cit., pp. 211-12.
[16]Cfr. La condition…, cit. pp. 47-130.
[17]L’enracinement… cit. , p.212.
[18]Ibid.,  p. 87.
[19]Il testo fa parte dell’opera intitolata Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, Paris, Gallimard, 1962, trad. it. in L’amore di Dio, Roma, Borla, 1979.
[20]Ibid. , p. 87.
[21]Ibid. , p. 90.
[22]Ibidem.
[23]Ibid. , p. 81.
[24]Ibid. , pp. 97-99.
[25]Cfr. L’enracinement… , cit. p.88.
[26]Ibid. , p. 89.
[27]Ibid. , p. 214.
[28]Simone Weil, Riflessioni sulle origini dell’Hitlerismo in Sulla Germania totalitaria, Milano, Adelphi, 1990.
[29]Ibid. , p. 246.
[30]Ibid. , p. 259.
[31]Cfr. , La pesanteur et …, cit. pp. 72-73.
[32]Cfr. , Riflessioni sulle… , p. 220.
[33]Simone Weil,  Riflessioni in vista di un bilancio (Progetto di articolo, primavera-estate 1939) in Sulla guerra, Scritti 1933-1943, Milano, Pratiche Editrice, 1998, p.110.
[34]Simone Weil, Lettre à un religieux, Paris, Gallimard, 1951, trad. it. in Lettera a un religioso, Milano, Adelphi, 1996, p.79.
[35]Ibid. , p. 63.
[36]Cfr. , L’enracinement , cit., p. 232.
[37]Cfr. , Israele e i Gentili, in L’amore di Dio, cit. , p.118.
[38]Cfr. , La pesanteur…, cit. , p.181.
[39]Cfr. , L’enracinement…, cit. , pp. 222-223.
[40]Simone Weil,  Attente de Dieu, Paris, Librarie Arthème Fayard, 1969, trad. it. in: Attesa di Dio, Obbedire al tempo, Milano, Rusconi, 1984, pp. 50-51.
[41]Ibid. , p. 118.
[42]Ibid. , p. 123.