LUOGO DI CONFINE

UN VIAGGIO LETTERARIO A TRIESTE E NELLE TERRE LIMITROFE

di Chiara Rantini

Di viaggi se ne possono fare di svariati tipi. Ci sono viaggi che coinvolgono solo l’aspetto motorio (rari e inutili), viaggi che sono totali in quanto condotti con la mente, con i piedi e col cuore e altri che chiamano in causa solo (si fa per dire) l’intelletto e la sensibilità interiore. Spesso, questi ultimi, sono l’effetto di una suggestione dettata da un racconto orale o da una lettura.

Una serie di circostanze recentemente mi ha condotta a percorrere, non solo mentalmente, alcune zone di confine da me molto amate. È nato così un viaggio letterario che ha per meta Trieste, l’Istria e oltre, fino a Lubiana e Zagabria. Suggestione letterarie e memorie personali di viaggio si mescolano in un percorso a tratti onirico. Viaggeremo in compagnia di autori noti e meno noti che avrò cura di segnalare in una nota bibliografica a parte.

Dopo queste prime brevi avvertenze, non resta che partire con la giusta predisposizione alla scoperta.

TRIESTE

Trieste, il luogo della nostalgia asburgica, il luogo del fernweh che assale il sensibile viandante sin dal suo arrivo. Trieste, o la ami alla follia o ti resta indifferente!

Guazzabuglio storico e linguistico (ora molto meno) è la città della mancanza di affermazioni esclusive: non è solo italiana, non è solo slovena…

Si potrebbe dire priva di identità ma si sbaglierebbe di molto: l’identità è in questo suo stare in equilibrio tra venti contrari (non a caso è la città della bora) sfuggendo alle frontiere, ai confini netti, all’appartenenza che non sia quella dettata dalla sua stessa libertà.

A Trieste soffia la bora: spesso in inverno ma talvolta anche in estate.

Alla bora piacciono le porte, le gole strette, i cunicoli naturali in cui si insinua con violenza, da padrona. Quando sono stata in Istria, ho visto l’ultima porta della bora prima del suo dilagare in mare e su Trieste: si tratta di un’insenatura, un piccolo golfo a gomito tra Fiume e Abbazia. La bora quando è carica della rabbia siberiana passa di là, scendendo dai monti del Gorski Kotar; rotola a valle come un fiume in piena gonfiandosi a dismisura. Nelle giornate quiete, questo piccolo golfo è il luogo prediletto di chi ama il windsurf perché il vento (emanazione tranquilla della bora) non manca mai: un signore da Lubiana sale in auto alle tre del mattino perché alle sei ha appuntamento col vento …così raccontano i miti moderni e io voglio crederci.

Trieste si distende verso il mare ma non dimentica la terra alle sue spalle. Il Carso con i suoi sassi, le rocce bianche, i ripidi fianchi brulli è sempre stato luogo di attrazione e di elezione degli scrittori; forse perché non chiede una militanza linguistica: la natura è sempre la stessa, ostile e benevola, terra che dona il senso di appartenenza ai popoli della montagna, sloveni o italiani non fa differenza. Slataper, Kosovel e Saba cantarono gli stessi luoghi in metri e melodie diversi ritrovandosi poi insieme, in forma di statue e di epigrafi, sul Sentiero dei Poeti che sale nel Carso da Monrupino.

E in Monrupino è possibile identificare il piccolo paese di M. dove si svolge la kafkiana vicenda narrata nel romanzo di Stelio Mattioni Dolodi. La storia ha come protagonista una casa sul confine italo-sloveno; una coppia di triestini l’acquista, suggestionata dall’enigmatico Dolodi che ne vanta meraviglie. Appena però prendono possesso dell’abitazione, la loro vita comincia misteriosamente a cambiare mentre inspiegabilmente, nottetempo, il confine si sposta sempre più vicino alla casa. Al termine del romanzo, i due cittadini, estranei a tutto l’ambiente che li circonda (il mondo rurale e sloveno), pur avendo raggiunto una nuova consapevolezza di sé, rinunciano a carpire il segreto di queste terre arse e sassose del Carso, ritornando nella avita e quieta Trieste.

Dalle modeste cime, lo sguardo torna verso il mare, verso la distesa infinita del non-luogo per elezione, l’essenza spogliata di ogni superfluo della vita, la meta, che meta non è, bramata da Carlo Michelstaedter nel suo poema Itti e Senia. Non posso non immaginare il giovane goriziano seduto su uno scoglio a Pirano con lo sguardo fisso verso la Punta del Salvore intesa non come punto di arrivo ma come partenza verso un viaggio di non ritorno nel grande e vasto mare.

Sono molti anni che manco da Pirano; quando la visitai ero molto giovane però l’atmosfera non era dissimile a quella triestina: mare e terra uniti in uno stretto connubio di bellezza…di quella bellezza che genera malinconia.

Si può avere nostalgia di ciò che non si è visto né vissuto? Se lo si è letto nei libri, certamente! Recentemente mi sono imbattuta in un libro di racconti su Trieste: I fantasmi di Trieste di Jelinčič. Ho seguito la narrazione di quei “fantasmi” al punto tale che mi sono sentita ribaltata in epoche lontane, donna con prole all’inizio del Novecento mentre salutava il consorte all’ingresso del bagno El Pedocin oppure lavoratrice scampata alla miseria della seconda guerra mondiale mentre scendeva in città da Opicina sul mitico tram. I matti dell’OPP invece mi sembrano così familiari che non ho bisogno di immaginarmeli: li vedo passeggiare nel parco di San Giovanni accompagnati dalle loro stravaganze e dalla speranza di un mondo alla rovescia (la vera e unica rivoluzione) in cui i cavalli di Troia non entrano per seminare morte ma escono per portare la vita.

Non ci sono più treni da Trieste per la frontiera orientale. E non da quando la città è tornata a essere definitivamente italiana. I ponti con la terra degli slavi e con gli antenati mitteleuropei non sono stati tagliati negli anni compresi tra i ’50 e i ’70. Paradossalmente era possibile muoversi nell’ex-impero su via ferrata più agevolmente durante il periodo della guerra fredda. Sembra che la modernità e l’alta velocità siano nemiche del passato di Trieste.

Saggio Rumiz, votato ai viaggi anacronistici nelle terre di un impero che non esiste più, sulle tracce delle vestigia di città oltre tutte le frontiere esistenti, zone liquide che hanno mantenuto nomi bizzarri come Galizia, Volinia, Bucovina! Niente più treni per il perduto Oriente: oggi si viaggia in bus almeno sino a Vienna, Zagabria, Lubiana: poi i collegamenti su via ferrata riprendono, riemergendo come fiumi carsici, pur nella consapevolezza di aver perso una parte importante.

C’era una tratta ferroviaria a metà del XIX secolo che collegava Fiume a Budapest. Era il fiore all’occhiello dell’Impero, l’orgoglio della conquista di uno sbocco sul mare anche per gli Ungheresi. Fiume divenne ungherese in virtù di questa ferrovia. Ora non è rimasto quasi più niente e un ramo di collegamento che partiva da Trieste è diventato una bellissima ciclo-pedonale, la nota pista Cottur, la migliore occasione per conoscere la selvaggia val Rosandra!

Abbiamo già lasciato Trieste e siamo pronti ad esplorare le frontiere dell’impero passando dalla porta stretta (di memoria kafkiana) della stazione delle autolinee: un altro mondo che già conosciamo un po’, sebbene forse, anche noi custodi di un nobile passato, non vedremo più certi personaggi come gli spazzacamini o le donne cariche di pacchi che sprigionano l’inconfondibile profumo di alimenti fermentati.

Siamo solo all’inizio. Il viaggio continua.

ISTRIA protagonista. A margine, Lubiana e Zagabria

Il viaggio riprende da Capodistria. Un porto, una città vuota in inverno: mi ricorda Fiume anche se la città del Quarnaro è molto più grande, ricca di storia e di memorie recenti perciò più viva ma non certo il luogo istriano da cartolina come Abbazia o Rovigno. Ma se invece vai oltre verso il confine con la Croazia, incontri Isola e là i ricordi si fanno di pietra bianca, di casette basse color ocra, piazzette dal sapore veneziano e il mare blu sullo sfondo. Isola è solo l’antefatto, l’introduzione allo splendore ineguagliabile di Pirano.

“Una mescolanza di nostalgia (quante volte ritorna questa parola) e di vita” scrive Samonà. E come non essere in accordo? Pirano è un tuffo nel passato, a cominciare dalla statua di Tartini nella piazza principale, dalla chiesa che veglia dall’alto della collina, dalle sue strette vie frequentate solo da pedoni. Pirano è destabilizzante per il suo essere sospesa tra due braccia di mare, per il suo essere attaccata alla terra e protesa verso l’infinito, verso la Punta del Salvore che Michelstaedter aveva elevato a simbolo dell’eternità. Il mare è placido e tranquillo sul lato che guarda il porto, selvaggio e insidioso dalla parte sovrastata dalla alta scogliera in direzione di Isola. Nei paesi della “frontiera spaesata” tutto è duplice. Ogni città, ogni luogo è un chiaroscuro. Non so se in inverno, talvolta la nebbia faccia la sua comparsa a Pirano: se così fosse, cerco di immaginare la piazza che lentamente svanisce di ogni suo contorno come sotto l’effetto di un incantesimo che annulla lo scorrere del tempo: potrei sentire i passi di Tartini sul selciato e non meravigliarmi.

Il tempo riprende a scorrere. Di Portorose ricordo le brossure che pubblicizzano le terme e i casino. Invece, nelle pagine del libro, scopro un paese quieto circondato dall’acqua delle saline, luogo di sole e di paludi dove è facile perdere l’orientamento. Varcare la frontiera è un attimo, soprattutto se sei a piedi. Il mondo nuovo si chiama Croazia anche se l’Istria viene molto prima nel tempo.

L’Istria è un mondo a parte così come scrivono i grandi scrittori Fulvio Tomizza e Giani Stuparich.

L’Istria non è un’isola ma ha tutti i profumi e i colori delle isole. Il mare potrebbe essere quello della Liguria per colore e per profondità, i paesi hanno in sé qualcosa che ricorda Venezia (non Trieste che ha una impronta asburgica come Fiume) soprattutto i campanili, ma i pendii sono diversi. I vitigni sono più lontani dal mare, in luoghi riparati dalla bora, le rocce sono candide, su tutto domina la boscaglia a ciuffi e i sassi: un paesaggio aspro e dolce allo stesso tempo, qualcosa che suscita il deja vu pur senza darti delle coordinate ben precise. Illiria, terra di Etruschi? Potrebbe essere questo il legame, forse un po’ azzardato. Non so, qualcosa nel panorama ricorda l’asprezza delle colline siccitose nella campagna toscana, i monti della Calvana in estate quando le ginestre tingono di giallo i pendii o le boscaglie delle alture pisane dove già si respira l’aria di mare.

Parenzo con la sua basilica eufrasiana è un gioiello che manca alla mia collezione. Ho il desiderio di tornare ma di tornare a piedi. Ora so anche come, seguendo l’antica linea ferroviaria che da Trieste conduceva a Parenzo. Il percorso esiste e attraversa luoghi di mare e di terra, un percorso pieno di sole, di profumi in estate, e di vento, di nuvole in inverno. A passo lento tutto è più buono: una pietanza che non mangi ma che assapori. L’unico problema del viaggiare a piedi è il bagaglio: vorrei portare con me i romanzi, le voci degli autori istriani ma so che sono molti, troppi per stare in uno zaino: perché l’Istria è una terra di storia e di letteratura, una mescolanza di lingue che la rende incredibilmente ricca.

E infine le grandi città capitali di due nazioni che fino a trent’anni fa non esistevano.

Lubiana è una signora che veste abiti classici con un tocco di romanticismo. Attraversa le vie e i ponti e si lascia guardare come se fosse uno spirito, ma benevolo. Appare e scompare come una sorta di vodnik, creatura dell’acqua che dalla Ljubljanica risale gli argini prativi e cammina nelle strade raccontando molte storie del passato. Cammina fino al Castello e là si ferma in attesa di un nuovo giorno.

Zagabria è una giovane donna un po’ intellettuale, dinamica, proiettata verso il futuro. Crede nel sogno europeo e lotta per vederlo concretizzarsi. Studia le lingue cercando di non considerarle una barriera. Ama le molteplici identità ma l’eco della guerra è ancora troppo vicino. Se a Trieste ci sono ancora dei fantasmi e sono ben visibili, a Zagabria vanno ancora cercati.

Una di queste due donne l’ho conosciuta ma forse un po’ troppo frettolosamente: troppo giovane per capire l’importanza dei fiumi, troppo giovane per capire la vita. Sono felice di averla vista in autunno e ho un ricordo di lei in banco e nero molto retrò, appunto come una signora di mezza età ancora molto bella.

Non conosco Zagabria ma la sogno come un punto di partenza verso le infinite terre della Pannonia, verso Ptuj e le pianure solcate dalla Drava, steppa ungarica che evoca ricordi mongolici. Ecco l’esotismo dei Balcani, ecco la voce che chiama da Oriente!

Vorrei proseguire il viaggio, anche uno di carta va bene, cartografico ancora meglio.

La frontiera è sempre più oltre.

BIBLIOGRAFIA

Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino, 1987

Dušan Jelinčič, I fantasmi di Trieste, BEE, Udine, 2018

Stelio Mattioni, Dolodi, Zandonai, Rovereto, 2011

Carlo Michelstaedter, Poesie, Adelphi, Milano, 1992

Paolo Rumiz, Vento di terra. Istria e Fiume: viaggio tra i Balcani e il Mediterraneo, BEE, Udine, 2020

Giuseppe A. Samonà, La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani, Exorma, Roma, 2020

Giani Stuparich, Un anno di scuola. Ricordi istriani, Einaudi, Torino, 1994

Fulvio Tomizza, La ragazza di Petrovia, Mondadori, Milano, 1975

ESTASI POST-NUCLEARE. UNA PASSEGGIATA NELLA ZONA di Markijan Kamyš

contentMarkijan Kamyš, Una passeggiata nella zona, trad. dall’ucraino di Alessandro Achilli, Keller ed., Rovereto (TN), 2019

Una passeggiata nella zona di Markijan Kamyš, giovane autore ucraino nato nel 1988, è una lettura che intriga, sorprende, conquista pur lasciando spazio a delle pause di riflessione tra un capitolo e un altro. La prima riflessione in realtà è una domanda: quale interesse può spingere un uomo a sacrificare gli anni migliori della propria vita per compiere un simile “viaggio di scoperta” proprio nei luoghi del terribile incidente nucleare del 1986?

Ho cercato una foto di Markijan: è magro, biondo con i capelli sottili, lisci e lunghi, il volto affilato. Il passo successivo è stato quello di leggere alcune informazioni biografiche. È nato due anni dopo il disastro di Chernobyl da un padre ingegnere atomico che fu tra coloro che dovettero “liquidare” il mostro. Markijan è rimasto orfano di padre all’età di 15 anni. Sappiamo che ha frequentato l’università a Kiev, laureandosi in Storia.

Nella Passeggiata scrive di sé al presente, del tempo in cui vive (tre giorni o un mese, non ha importanza) all’interno della zona proibita ma i riferimenti alla vita passata o anche a quella presente fuori dai confini dell’area contaminata si riducono ad alcuni vaghi cenni alla normalità urbana della capitale ucraina.

Il titolo del libro rievoca in me un’altra nota “passeggiata” letteraria, quella di Robert Walser. Tuttavia la differenza è enorme: se nella passeggiata dello scrittore svizzero il vagabondaggio era finalizzato all’incontro con altre grandi figure della letteratura, nel testo di Kamyš l’incontro è principalmente con se stesso, con quella parte del proprio essere liberata dalle scorie della vita convenzionale. Uscire dal tempo della vita quotidiana, dagli spazi socialmente controllati è sempre stato il tema del vagabondaggio letterario fin dal Romanticismo tedesco, passando per l’insurrezionalismo ambientalista di Thoreau fino alle forme di comunità autarchiche post sessantottine. Oltrepassare il filo spinato che separa la vita reale ma inautentica da quella sognata ma autentica costituisce una specie di rito della soglia (di cui Kamyš è un officiante) documentato nelle maggior parte delle religioni: l’iniziato depone l’uomo vecchio a favore di una nuova identità che vive una sorta di comunione estatica con la natura della zona. Tuttavia, a differenza del pensiero di un pioniere dell’ambientalismo come Emerson, il concetto di natura in Kamyš è più allargato e comprende anche il paesaggio industriale che ha subito il destino dell’abbandono. I palazzi di Pripijat commuovono per la loro nudità: quelli che erano luoghi di vita umana sono ora territori di conquista di altre specie vegetali e animali. Le foreste, le paludi e con esse i loro abitanti un tempo emarginati come lupi, cinghiali, linci paradossalmente sono le uniche creature sopravvissute al mito del progresso sovietico su cui Kamyš usa parole di scherno.

Nelle passeggiate nella zona riecheggia anche il mito di Ulisse, ovvero di colui che è costretto a viaggiare per ritornare a casa.

La vera felicità è che ci sarà il filo spinato …per andarsene il prima possibile e dimenticare tutto questo orrore. E scappare in qualche posto caldo, scrive Kamyš ed effettivamente il testo ripercorre un bisogno estremo di fuga a cui è necessario, come fattore d’equilibrio, la certezza del ritorno. La dimensione estatica raggiunta dallo scrittore ucraino, moderno sciamano, all’interno della zona proibita non può durare per sempre perché il rischio di perdersi totalmente sarebbe altissimo.

Sarà un nuovo reset. Tornerai a Kiev… Arriverai a casa e ti addormenterai come un bambino. Niente disturberà i tuoi sogni.

Kamyš si definisce un sognatore, forse uno degli ultimi in mondo che deve marciare serrato sotto i colpi frenetici del consumismo. Nella zona non esiste fretta, se non quella data dal fuggire dagli inseguimenti della polizia o dei branchi di lupi.

La trama della passeggiata è di una semplicità imbarazzante: cammini senza fretta e fantastichi su mille cose…Non c’è un motivo per perdersi nella pianura di Pripijat se non quello di farlo come gesto di ribellione e di riaffermazione della propria libertà e pace interiore.

Qui la mia anima si placa, si tranquillizza. Qui dormire, mangiare, condividere una magra cena a base di scatolette di carne e acqua del fiume contaminato è rispondere ad un’esigenza primaria e riscoprire gli stessi sentimenti che un tempo ebbero gli uomini delle caverne.

Che sia questo il nostro futuro, e Kamyš non sia una specie di profeta?

Chiara Rantini

L’ultimo giorno, poesie di Stefano Fortelli

di Chiara Rantini

fortelliStefano Fortelli, L’ultimo giorno (Versi dell’aldilà), Youcanprint, 2019

Un senso di vuoto pervade il lettore sin dai primi versi di questa silloge di Stefano Fortelli. Il poeta sembra prendere per mano il lettore e condurlo in un non-spazio, nel luogo, impossibile da descrivere, dell’assenza.

Si tratta di un “aldilà” che non ha nessun legame con un immaginario religioso o filosofico: forse è un desiderare un “aldilà” diverso dalla vita presente ma che è ancora privo di concretezza, se non altro simbolica. Desiderare e non sperare, perché la speranza sarebbe già una liberazione. Condannati a vivere in questo presente, fatto di “tempi morti e bui di inutile incoscienza”, ecco che la parola poetica pare essere l’unica espressione sincera, vera a cui prestare ascolto per salvarsi dal “limbo degli egoismi”.

La poesia ha in sé il suono di una voce collettiva, di una consapevolezza che mette in comunicazione chi soffre e resta impotente di fronte all’insensatezza di tanta parte delle vicende umane.

Ho paura fratello poeta:

paura che dall’altra parte del mondo

tu stia scrivendo le stesse parole

E tuttavia questa condizione di affratellamento non è una consolazione né un appiglio alla speranza in un futuro di cambiamento. Non resta che “sopravvivere”, muoversi in uno stato di costante asfissia, cercando di limitare i pensieri e resistere al tormento “dell’ossessione del tempo”.

Il poeta, come è tradizione letteraria, si ritira dal mondo rifugiandosi in una bolla costruita “tra il sogno e la rassegnazione” osservando ciò che è esterno a lui “senza esserne coinvolto”.

La delusione, la mancanza di speranza e la rassegnazione sono i segni caratteristici della poetica di Fortelli ma ciò non esclude che, nella lettura, non si avverta una tensione sotterranea, qualcosa di potenzialmente distruttivo che potrebbe implodere da un momento all’altro.

È certo che “realizzare la caducità ed accettarla” è una soluzione temporanea. La forza della vita continuerà a bussare sia che provenga dal passato o dal futuro e allora vedremo da quale luogo proverrà la voce poetica del nostro autore. Aspettiamo la prossima silloge.

 

 

Stefano Fortelli napoletano sui generis, animo mite ma ribelle, con il passare degli anni sviluppa una introversione ed un isolamento che lo portano sempre più spesso a riflettere su temi universali quali il fluire del tempo e della vita, il rimpianto, la disillusione, la coscienza, l’incertezza ed i tanti quesiti irrisolti che ci portiamo dentro.

In tempi recenti (2014) comincia ad utilizzare la penna per fissare su carta le sue meditazioni. Parallelamente partorisce una geniale idea artistica e coinvolgendo l’amico di una vita Corrado, fonda un duo artistico che si firma con lo pseudonimo ION.

https://www.youcanprint.it/poesia-generale/lultimo-giorno-versi-dellaldil-9788831649186.html )

INCONTRI FANTASTICI NELLA STORIA. LA NARRATIVA DI ALFREDO BETOCCHI.

di Chiara Rantini

In questa breve intervista conosciamo un autore emergente italiano, nato in Grecia ma residente a Firenze da molti anni, Alfredo Betocchi. Scrittore di romanzi, racconti, poesie e favole per bambini, negli ultimi anni ha dato alle stampe una trilogia sospesa tra il genere fantastico e quello storico: L’orologio della torre antica, La Maga Tara, Selina.

Come è nata in te la passione per la scrittura?

Cara Chiara, prima di tutto ti ringrazio di avermi dato questa opportunità. Poi devo confessare di essere nato in Grecia. Ho respirato sin da subito l’aria dell’Olimpo e il cibo degli Dei. Questo mi ha indirizzato verso l’amore per la Storia e gli studi classici. Mi è sempre piaciuto scrivere, fin da piccolo. Scrivevo piccole storielle poi, da studente, come molti, ho scritto articoli politici su fogli ciclostilati. Con la maturità e la passione per lo studio della storia delle bandiere, ho cominciato a scrivere articoli in Italia e all’estero su periodici di settore. Infine nel 2007 ho avuto l’ispirazione per scrivere romanzi. Ramesse con logo

Oltre al romanzo, sei autore anche di racconti e di poesie. Che genere preferisci scrivere?

Sicuramente il mio genere preferito è quello storico, ma non disdegno scrivere d’amore e d’avventura. Sono nipote del poeta Carlo Betocchi ma non mi sono mai considerato un poeta. Le poesie sono state una simpatica parentesi che si è chiusa definitivamente. Ho pubblicato nel 2013, alcune poesiole in un volume intitolato: “I poeti contemporanei” edito da “Le Pagine”. Ho pubblicato pure un paio di favole buffe per bambini.

Parliamo della tua trilogia. Da dove nasce il tuo interesse per il mondo magico e la stregoneria?

E’ nata una notte di Luglio del 2007 quando sognai di un ragazzo che forse, ero io. Questi saliva una torre, su, fino in cima, dove incontrava uno spettro terrificante. Questo sogno mi rimase così impresso che decisi di metterlo per iscritto. Per gradi nacquero così la trama e i personaggi. Arretrando sempre più indietro nel tempo, arrivai alla fine del XIII secolo, tempo di Crociate e di lotte civili nell’antica Florentia, vicende che mi hanno sempre affascinato.

In tutti i tuoi romanzi, si alternano piani temporali diversi. Passato, presente e futuro convivono insieme nella stessa opera. È questa la caratteristica della tua scrittura?

Copertina CampanoIl tempo è un soggetto affascinante e mi è venuto spontaneo raccontare due storie ambientate in secoli molto distanti tra loro. All’inizio avevo in mente due trame, molto nebulose poi, pian piano, si sono rivelate nella mia mente trasferendosi sulla punta della penna. Tutti e tre i romanzi della “Trilogia delle Streghe” sono stati concepiti in questo modo.

I personaggi femminili sono sempre protagonisti. Cosa ti affascina del mondo delle donne?

Devo essere sincero, all’inizio del mio primo romanzo avevo l’intenzione di fare protagonista Enrico di Torrebruna, un nobile dell’aretino, poi l’incontro con Elodìa mi ha preso la mano e questa ragazza è diventata la vera star del libro. Nel secondo e nel terzo romanzo, la linea era già tracciata e le donne sono state i miei personaggi preferiti. E’ molto più intrigante raccontare una storia vista dalla parte delle donne e non so se, come uomo, ho centrato lo scopo. Trattandosi poi di streghe, era giocoforza occuparmi di personaggi femminili. La favola d’amore che racconto è originalissima e, al contrario delle favole tradizionali in cui il Principe Azzurro accorre per salvare la Principessa, qui è Lei la protagonista che salva il suo innamorato. E’ un romanzo tutto al femminile, dove le donne prendono in mano il loro crudele destino e lo rovesciano, creando prima un grande male e poi distruggendolo, con il loro coraggio e determinazione. Copertina mia

Cosa ti diverte di più nel mettere insieme generi diversi nello stesso romanzo, come il thriller, lo storico e il sentimentale?

Scrivere storie mi diverte sempre, qualsiasi genere io tratti. La scrittura è creazione e nel “maneggiare” i miei personaggi e il loro destino mi semto come un Demiurgo. Gli uomini non sono Dei perchè non conoscono il loro Fato. Gli scrittori invece sono come gli Dei, perchè conoscono il destino dei loro personaggi.

Nella tua trilogia, quale personaggio ha richiesto da te un maggior sforzo creativo? E perché?

Sicuramente la strega Elodìa, personaggio controverso, nato per amare ma che ha cambiato il suo amore in un odio secolare. Questa figura è nata in un secondo tempo, avendo necessità di un “cattivo” (in questo caso una “cattiva”) che traviasse e plagiasse una nobile fanciulla. A forza di retrocedere nel tempo, mi sono ritrovato nel XIII secolo. Un altro personaggio che mi ha veramente “provato” è stato il Gatto parlante, nato nel secondo romanzo ma che avrà un inaspettato sviluppo nell’ultimo libro.

Copertina SELINAProgetti futuri?

Dopo la pubblicazione del mio ultimo romanzo “RAMESSE XI”, ambientato nell’Egitto del 2012, con implicazioni nel 1077 avanti Cristo, spero di poter pubblicare “Aquileia”, ambientato nel 452 dopo Cristo, al tempo dell’invasione degli Unni di Attila in Italia. E’ un romanzo storico d’amore. Nel cassetto ho altre belle idee, già inizate…..fantascienza, storia, ancora amore. Vedremo.

Per finire, devo consigliare a chi fosse interessato ai miei libri, di rivolgersi direttamente a me sulla mia mail: abetocchi@yahoo.com oppure sulla Pagina Facebook : https://www.facebook.com/AlfredoBetocchiScrittore/

 

NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE

Alfredo Betocchi, nato ad Atene in Grecia, ha vissuto a Milano e infine a Firenze. In gioventù è stato membro dell’Ass. Scautistica Italiana. Ha conseguito il diploma di maestro elementare e ha frequentato la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere all’Università di Pisa. Ha viaggiato l’Europa per approfondire i suoi studi classici. Ha insegnato nelle scuole della sua città. Ha lavorato come economo e infine all’ufficio matrimoni del Comune di Firenze. E’ sposato ed ha un figlio. Appassionato di bandiere e di storia, ha pubblicato articoli su periodici italiani e stranieri del settore in varie lingue. Collabora con “Vexilla Italica” del Centro Italiano Studi Vessillologici. Ha scritto divertenti e curiosi articoli, come biografie di personaggi poco noti, tradizioni popolari italiane e musica su bimensili fiorentini (“INSIEME” edito dal Comune di Firenze e “IL GRILLO, edito dal DLF di Firenze). Ha pubblicato favole per bambini in “Acqualuna della Luna e altre Storie”, Ed. Luna Nera, oltre ad alcune poesie nell’antologia “I Poeti Contemporanei” e scritto racconti per ragazzi sul genere “Ai confini della realtà”. Amante del fantastico, nel 2010 ha pubblicato il primo romanzo della “Trilogia delle Streghe”dal titolo:

– “L’OROLOGIO DELLA TORRE ANTICAper l’Editore “Il Campano” di Pisa.

Nel 2013 è uscito il secondo libro dal titolo:

– “LA MAGA TARA ripubblicato nel 2017 dallo stesso autore.

L’ultimo romanzo della Trilogia,

SELINA, l’ultima strega, è uscito a Natale del 2016 per i tipi di “Virginia Editrice”.

Ha ancora nel cassetto in attesa di pubblicazione altri romanzi di vario genere: amoroso, avventuroso, storico e fantascientifico, oltre a racconti brevi per ragazzi di genere fantastico.

La Trilogia può essere acquistata direttamente dall’Autore contattandolo sul suo profilo Facebook

o alla Pagina “TRILOGIA DELLE STREGHE” o alla mail “abetocchi@yahoo.com

LE POESIE DI ANDREA ASCOLESE

di Chiara Rantini

Andrea Ascolese, Poesie, I Quaderni del Battello Ebbro, Corleone, 2019

 

Andrea Ascolese è attore, cantautore, formatore in ambito teatrale. E come spesso accade in questi casi, la poesia è quasi un inevitabile approdo. s-l300

Questa raccolta di poesie apparentemente disomogenea, ha come elemento unificante il tema del viaggio. Il viaggio inteso come excursus in altri mondi, lontani geograficamente e non solo. Il richiamo al teatro greco, agli eroi omerici e ai miti ripropone un percorso in cui l’autore intende traghettare il lettore nei luoghi della poesia.

“Oltrepassare il destino” come si legge in Traversata numero 28, potrebbe essere una meta da raggiungere ma lo stesso Ascolese, privo di certezze, sembra essere alla ricerca di un diario di bordo che lo guidi verso la parola essenziale, quella che ha in sé la pluralità di sfumature.

Alcune poesie affrontano tematiche esistenziali in cui è probabile sentire un richiamo autobiografico.

40 anni e sei in fuga

da chi?

da te stesso

forse da tuo padre

dalle tue paure (…)

Così è scritto nella poesia intitolata 40. Quaranta sono gli anni, a partire dai quali, ricorrono spesso domande retrospettiva sulla vita, sul senso che ha avuto e sul quello che vorremmo attribuirle in futuro.

imagesLe poesie di Ascolese raccontano il tortuoso percorso dell’uomo nella giungla delle emozioni, dei sentimenti e delle speranze, eternamente in cammino verso una chiarificazione del sé, di un Identikit che risponda alla voce della poesia, sempre sospesa tra finzione e realtà: il teatro del mondo.

 

 

Sei tu: il vascello fantasma

sulla mareggiata collinare,

il corsaro nero (…)

pirata del tempo!

BENESSERE IN NATURA

di Chiara Rantini

i beneficiIvan Genesio, I benefici delle esperienze in natura, Bambù edizioni, Firenze, 2019

 

Quale ruolo ha il tempo trascorso a contatto con la natura relativamente al benessere umano?

A tale domanda risponde l’autore in questo breve libro in cui si evidenziano i benefici delle esperienze fatte in ambienti naturali. Ivan Genesio spiega in modo semplice, esaustivo e accessibile a tutti, in cosa consistano tali benefici.

Nella nostra società consumistica l’idea di benessere è spesso collegata a un alto livello di vita ed è misurata in capacità di acquisto e disponibilità di beni materiali. Sappiamo bene però che questi indicatori non dicono niente del nostro benessere interiore.

Il libro si divide in due parti: la prima mette in evidenza i fenomeni percettibili che avvengono nel nostro corpo e nella nostra psiche ad ogni nuova immersione nella natura; nella seconda parte sono trattati i fenomeni impercettibili. SDC12042

Dei fenomeni percettibili, tutti legati ai cinque sensi è abbastanza intuitivo scrivere anche se purtroppo non è mai abbastanza per convincere la maggior parte dell’umanità a cambiare stile di vita, ma dei fenomeni impercettibili è interessante approfondire alcuni aspetti. Ivan Genesio che nella vita è un fisico e una guida ambientale, analizza tutti quegli elementi che in natura contribuiscono a migliorare la nostra condizione psico-fisica senza che noi possiamo esserne consapevoli. Ecco allora che il lettore verrà condotto alla scoperta del “forest bathing” e della conseguente azione benefica dei fitoncidi, composti organici volatili con azione antimicrobica. Scopriremo inoltre quale importante ruolo abbia nel rafforzamento del nostro sistema immunitario e sul miglioramento dell’umore, la carica di elettricità nell’aria e la biodiversità intestinale che possiamo sperimentare solo negli ambienti naturali. Stare lontano dalla natura porta ad uno stato di squilibrio generale che predispone il nostro corpo ma anche la nostra psiche ad essere preda di malattie e condizioni di profondo malessere.

“Secondo gli esperti ci restano solo due generazioni per salvare il pianeta” ci ricorda l’autore del libro, sottolineando quanto siano importanti pubblicazioni di questo tipo per sensibilizzare la popolazione a un diverso approccio all’ambiente naturale perché non ci si limiti solo alla tutela ma alla partecipazione attiva ed esperienziale nei molteplici contesti che la natura può offrire.

Preghiera per Černobyl’, voci dall’inverno nucleare.

preghiera per chernobyldi Chiara Rantini

Svetlana Aleksievič, Preghiera per Černobyl, Edizioni e/o, Roma, 2018

Svetlana Aleksievič è una giornalista ucraina nata nel 1948. È una scrittrice appassionata della realtà e per questo non ha avuto vita facile nell’ex-Unione Sovietica.

Durante la sua carriera viene più volte ostacolata in virtù della sua sete di verità e solo nel periodo della perestrojka riesce a pubblicare i suoi libri migliori, romanzi in cui la realtà dei fatti è l’unica grande protagonista, spesso una realtà dura, vissuta da chi è stato dimenticato dalla storia.

Preghiera per Černobyl’ è stato scritto circa dieci anni dopo il terribile disastro alla centrale nucleare. Nel 1997 viene pubblicato e poi tradotto in molteplici lingue. Nel 2001 l’autrice ha compiuto una revisione del testo da cui è stata tratta l’edizione italiana.

Questo libro non è un reportage perché non possiede la freddezza tipica dello stile giornalistico ma non è un saggio perché non ha alcuna pretesa scientifica di spiegare le cause del disastro nucleare. Giusto sarebbe definirlo un “monumento scritto alla memoria” perché esso raccoglie le testimonianze di coloro che hanno visto entrare nella loro vita il “mostro” nucleare.ce

La Terra è improvvisamente diventata piccola. Abbiamo perso l’immortalità: ecco cosa ci è capitato. Abbiamo perso il senso dell’eternità. (Testimonianza di un insegnante)

Svetlana ha ascoltato tutte le voci, da quelle dei bambini a quelle degli anziani, riuscendo persino a far parlare la natura, gli alberi, gli animali e gli oggetti inanimati, autentici custodi della memoria.

Da ciò è nato un romanzo corale di un mondo sofferente che non vuole essere dimenticato. Romanzo corale quindi, ma anche testo filosofico perché proprio a partire dalle testimonianze sorgono molti quesiti di natura esistenziale. Primo tra questi, ovviamente, il valore della vita umana. La parola che ricorre più frequentemente nei racconti di chi ha vissuto l’immane tragedia è guerra. Ci potrebbe stupire ma ciò che hanno vissuto milioni di abitanti di quelle zone è proprio qualcosa di paragonabile a uno stato di guerra. Vaste aree dell’Ucraina e della Bielorussia sono passate sotto il controllo militare e quel poco di libertà di cui i cittadini potevano godere è stato sostituito dalla legge marziale in cui non c’è spazio per la comprensione degli eventi ma solo cieca obbedienza e obbligo di sottomissione.

Domande: “Che mezzi di protezione verranno distribuiti? Ci consegneranno delle tute speciali e dei respiratori?” La risposta era stata no. “È previsto che si scavi solo con i badili”. A parte due giovani insegnanti che si sono rifiutati, tutti gli altri hanno obbedito. (…) Ho forse mai insegnato qualcosa di diverso ai miei alunni? No, solo questo: andare dove occorre, gettarsi nel fuoco, difendere, sacrificarsi. La letteratura che ho insegnato non parlava della vita ma della guerra. (Testimonianza di un’insegnante)chernobyl-ruota-panoramica-maxw-824

Gli uomini giovani e forti (operai, elettricisti, camionisti ecc.) furono richiamati per essere inviati tra le fauci del mostro totalmente sprovvisti di protezioni necessarie sia a livello fisico che psicologico. Il pericolo veniva esorcizzato con la vodka e con una buona dose di propaganda per cui questi giovani erano eroi immolati sull’altare della patria sovietica. Furono definiti paradossalmente liquidatori perché inconsapevolmente stavano “liquidando” un intero paese, un sistema che nel disastro di Černobyl’ aveva raggiunto il suo apice di decadenza. Tutte le testimonianze sono concordi nel dire che dopo l’incidente nucleare nullaavrebbe potuto essere uguale a prima. Molti villaggi furono sepolti sotto molteplici strati di terrascomparendo per sempre dalle cartine geografiche. Questi uomini “liquidarono” la loro terra ma furono anche liquidati perché, una volta tornati alle loro case e alle loro occupazioni ebbe inizio una lunga agonia fatta di ricoveri, sofferenza, strazio per le famiglie.

chernobyl-pripyat_08Abbiamo tutti quanti partecipato …a un crimine…A una congiura. (Testimonianza di un ispettore per la protezione della natura)

Combattere una guerra con le armi e gli eserciti tradizionali sarebbe stato più semplice. Lottare contro un nemico silenzioso e invisibile penetrato in ogni istante e frangente della vita quotidiana ebbe un effetto devastante per la popolazione. Molti si arresero scegliendo di restare in uno stato di incoscienza nella consapevolezza che nessuno li avrebbe aiutati.

Quando perdi la sicurezza di una vita normale restano solo le radici a cui attaccarsi.

Preghiera per Černobyl è un libro che parla di un evento passato proiettato nel futuro: un futuro che potrebbe toccare ognuno di noi.

Quando morirò non seppellitemi al cimitero, il cimitero mi fa paura, ci sono soltanto morti e cornacchie. Seppellitemi nei campi… (Testimonianza di una bambina)
Il male, in sostanza, non è qualcosa a se stante, ma è privazione del bene, così come il buio non è altro che assenza di luce. (Testimonianza di un fuggitivo, un pellegrino, un folle-in-Cristo)

BOSCHI, TERRE E PORCI AL PASCOLO. UNA PASSEGGIATA NELLA STORIA

di Chiara Rantini

Passeggiando in un bosco o lungo un sentiero che costeggia una prateria, vi siete mai chiesti se quello che vedete sia sempre stato così, in quella forma e con quei colori? Sappiamo bene che il paesaggio è il risultato di un processo storico e ci sono molte pubblicazioni su questo argomento  ma finché non sono i nostri piedi a percorrere quel luogo, la teoria resta molto astratta.

Così ho voluto verificare di persona.

Sono andata in Alto Mugello. Dal passo del Giogo di Scarperia scende un sentiero fino a un piccolo gruppo di case, Osteto. Tutto intorno si trova un castagneto da frutto curato e ben pulito. Non sono più molti sull’Appennino i castagneti accuditi con tale zelo. Fino agli anni ’60 del XX secolo, era la regola perché si trattava di un’economia di sussistenza. Oggi la castagna è un prodotto di nicchia, quasi elitario, venduto a caro prezzo. castagneto a osteto

Uscendo dal borgo, mi chiedo se è sempre stato così o se sia esistita un’epoca che precedeva la coltura del castagno. Con questi pensieri arrivo alla Badia di Moscheta. Il nome è preso a prestito dall’abbazia vallombrosana che qui sorse per opera di Giovani Gualberto nell’XI secolo.

Al tempo era frequente che i nobili signori governatori della zona (i conti Guidi, gli Ubaldini furono i più importanti) concedessero in dono alcune terre per la fondazione di comunità monastiche; così, fu anche nel caso di Giovanni. Il monastero ebbe vita prospera e felice fino al XVIII secolo, quando le riforme in materia religiosa del Granduca Pietro Leopoldo ne provocarono la soppressione. I beni furono venduti all’asta e la proprietà passò alla famiglia Martini che la governò a mezzadria.

Ancora oggi, l’abbazia conserva un po’ di questo spirito rurale e dell’antico afflato mistico non rimane molto. moscheta-2015

Oggi è diventata una meta del turismo escursionistico e una rete di sentieri la collega al resto del Mugello montano. Mi incammino su uno di questi sentieri, soggiogata dalla bellezza del paesaggio quasi invernale. Anche qui ci sono castagneti ma non molto curati e quasi soffocati dall’avanzata della faggeta. Più in alto scorgo sento il frusciare di un’abetaia. È noto che i monaci, soprattutto quelli appartenenti alla regola benedettina e alle sue filiazioni, erano abili fautori dell’incremento della foresta in territori montani. Ma non sarebbe stato più produttivo fare spazio alle coltivazioni tradizionali come le patate, l’orzo, il grano piuttosto che far crescere una fitta foresta?

Mentre penso a questo, vedo sbucare una capretta: scende il pendio sassoso del bosco e sparisce tra gli alberi in pochi istanti. Ecco la soluzione! Niente è casuale. Per un momento mi sento trasportata in un altro tempo quando il bosco da pascolo costituiva il tipico paesaggio appenninico. Potrei essere finita nell’età della dominazione longobarda allorché i terreni dediti alle coltivazioni erano stati abbandonati a causa del calo demografico e si trovavano invasi dalla vegetazione spontanea. I Longobardi furono gli unici barbari che si stabilirono in modo stanziale in queste zone, radicandosi fortemente nel territorio. La pastorizia era la loro attività principale e oltre agli ovini era diffuso l’allevamento dei porci che pascolavano liberi nel bosco. I boschi da pascolo rispondevano a esigenze precise: la mitigazione delle alte temperature estive, la possibilità di un riparo al gregge, la produzione di frutti quali la castagna e la faggiola. L’età dell’Illuminismo seguì la via della produttività e, cacciati i monaci che in qualche modo furono i custodi della tradizione “longobarda”, si ritenne opportuno trasformare questi luoghi in ampi spazi coltivati, complice anche l’aumento vertiginoso della popolazione.

Ora, a causa dello spopolamento della montagna. sono ricomparsi i boschi, i faggi e gli abeti con i loro silenzi. E anche se apparentemente potrebbe sembrare un ritorno al passato barbarico, la situazione è diversa perché si tratta di un bosco non coltivato, un bosco che rinasce spontaneamente e riconquista selvaggiamente i suoi spazi. Piuttosto che ai Longobardi, il paragone è più evidente con l’implosione dell’impero romano d’Occidente, con un’età di decadenza in cui l’uomo è più impegnato a combattere contro se stesso piuttosto che a pensare alle future generazioni.

Carica di questi pensieri, torno verso ciò che resta dell’antica abbazia e mi lascio incantare da un turbine di foglie del colore del fuoco cadute a terra.

E poi c’è chi dice che dal passeggiare nei boschi si impara solo a bighellonare…

La sposa nella pioggia, una raccolta poetica di Daniele Cargnino.

Cari Lettori, oggi abbiamo incontrato Daniele Cargnino, torinese, autore della raccolta di poesie La sposa nella pioggia.

DANIELE CARGNINO, videomaker, sceneggiatore, Dj per una radio libera torinese e scrittore/poeta esordisce con la sua prima raccolta di poesie La Sposa nella pioggia (Ensemble, 2018)
“Qui ci sono tutti i miei sensi di colpa, i miei rimorsi e rimpianti, i giorni perduti e mai più ritrovati. Potete leggere queste righe come più vi piace, una frase alla volta o tutte insieme come dei racconti brevi. Si possono urlare o leggere in silenzio, respirando piano o buttando fuori l’ennesima sigaretta della giornata. In piena notte, o sotto il sole coperto di nuvole. Se passeggiate, vi consiglio di dare una lettura quando arrivate alla meta del vostro cammino oppure se siete su un treno diretto chissà dove a specchiarvi nel finestrino di un paesaggio monotono e senza vibrazioni. Questo (non) sono io, ma una piccola ombra del mondo che verrà.”

https://www.facebook.com/lasposanellapioggia/

Intervista a cura di Chiara Rantini.

  • Buongiorno, Daniele. Come nasce la raccolta poetica La sposa nella pioggia?

  • Potrebbe essere nata durante uno di quei temporali autunnali che si scatenano su Torino, la mia città. Oppure potrebbe essere nata in riva al mare un giorno di inverno. dopo avere passato ore a guardare le onde tuffarsi nell’orizzonte. O ancora potrebbe essere nata dall’incontro con una donna, in una di quelle notti con la luna coperta di nuvole e le strade deserte. Potrei continuare così per ogni poesia che scrivo. Credo non ci sia stato un momento preciso in cui mi sia detto che era ora di buttare su carta i miei pensieri. Non mi considero un poeta o uno scrittore, mi piace solo avere un foglio davanti e scrivere quello che provo, che sento, che voglio raccontare, fin da quando andavo al liceo, all’inizio scopiazzando dai miei scrittori preferiti, poi nel corso degli anni -spero- con una mia poetica più personale. Questa raccolta è quindi la somma di alcuni momenti e fasi della mia vita che uniti formano La sposa nella pioggia – una parte di ciò che sono, o potrei essere io.

  • Quale origine ha il titolo?

sposa nella pioggiaIl titolo è venuto senza pensarci troppo. Quando mi chiedono da dove derivi, immaginano tutti una figura malinconica- una donna, il giorno del suo matrimonio, sotto il diluvio, che effettivamente è un’immagine triste, ma anche molto bella e poetica. Ma non è la risposta giusta. Non sono neanche sposato. No, la raccolta si chiama così grazie a un racconto di uno dei miei scrittori preferiti, Beppe Fenoglio, vicino a me sia per motivi geografici (sono metà cuneese), sia per motivi politici. A parte questo, di Fenoglio, dei suoi temi, dei suoi partigiani non c’è traccia nelle mie poesie, solo questo titolo, quasi un tributo a lui e alla sposa sotto la pioggia del suo racconto, che vi consiglio di leggere.

  • Quali sono i poeti, antichi e moderni, che ti hanno maggiormente influenzato?

  • Bastano due nomi. Il primo è Cesare Pavese, modello inarrivabile, sospeso tra due mondi, tra la città (Torino) e la campagna (le Langhe), esattamente come me, Pavese, scrittore di libri di assoluta bellezza e autore di poesie tra le più belle di tutta la letteratura italiana e mondiale. Per me esiste Pavese e poi tutto il resto della letteratura. Non me ne vogliano gli appassionati di altri scrittori e scrittrici! Il secondo nome invece è Jack Kerouac, per me il più grande artista americano. Colui che in tutte le sue opere è riuscito a trasformare la prosa in poesia. Sulla strada, ma anche gli altri suoi libri, sono state delle vere rivelazioni e fonti di ispirazioni infinite.

  • Questa raccolta si può leggere tutta d’un fiato come un dialogo – monologo d’amore oppure frammentarla e leggerla a pezzi. Quale, tra queste, è la migliore chiave di lettura?

  • Non credo ci sia una risposta corretta o delle istruzioni su come leggere le mie poesie. Tutti e due i modi possono essere giusti, a seconda del momento in cui si sceglie di aprire il libro, dell’umore, del luogo in cui vi troviate. Mi piace l’espressione dialogo interiore con me stesso, meglio ancora una lunga sceneggiatura di un film mai girato. I complimenti più belli che mi abbiano fatto riguardo alle poesie sono di persone che si sono riconosciute in un verso, in una riga, e hanno trovato qualcosa di loro in quello che ho scritto. Penso sia molto bello che storie così personali siano arrivate anche a donne e uomini così lontani dal mio mondo e e dal mio modo di intendere la vita. Perché alla fine siamo tutti fatti di storie,no?Ognuno le può leggere nel modo che preferisce. Potete farlo quando tornate la sera a casa, quando siete innamorati o se avete appena finito di piangere per l’ennesima storia finita male e mai iniziata. Potete farlo mentre farlo mentre siete su un treno diretto chissà dove; da soli, prima di andare a dormire ascoltando la musica; dopo aver fatto l’amore, bacio dopo bacio una poesia alla volta, sottolineando i passi che vi sono piaciuti di più, spiegazzando la pagina, ridendo, fumando una sigaretta, guardando la pioggia cadere sui vetri delle finestre.

  • In questa raccolta uno dei temi ricorrenti è il senso di perdita. Che ruolo ha la poesia rispetto agli elementi dell’assenza e della distanza?

  • Si evincono così tanto questi temi? Ovviamente sì, perdita – assenza – distanza sono molto ricorrenti in quello che scrivo. La perdita di persone con cui ho condiviso molti chilometri del mio cammino e di momenti che non torneranno più. L’assenza che a volte pesa come un macigno e la distanza sia fisica che mentale, che come una bandiera divide il presente dal passato, strade che si sarebbero potute prendere se si avesse avuto il coraggio di avvicinarsi e trovare, oppure lasciare andare senza rimpianti. Il senso del vuoto. Sostituire quel vuoto a tutti i costi. Fa male se ci pensi.

  • Ha senso attribuire alla poesia il potere della cura e della protezione da una realtà troppo dura?

  • Sarebbe bello, ma no. Al massimo può aiutare – esorcizzare un momento, un episodio, a scaricare i pensieri rabbiosi, dolorosi, come una scarica di fulmini. Ma non può, e non deve essere, una cura. E’ solo scrittura, sono solo parole su un foglio, che ognuno interpreta come vuole. Servono a fissare un’emozione, a dichiararsi, a rimpiangere una cosa che non tornerà più, ma non è una cura, né la panacea di tutti i mali, di tutti i mali interiori che abbiamo. Sarebbe bello abitare o rifugiarsi in una poesia ogni volta che la realtà si fa troppo dura, ma purtroppo non funziona così.

  • I richiami al passato sono frequenti nella tua poetica. Possiamo parlare di una rievocazione del mito dell’infanzia come età felice della vita?

  • Guarda,da appassionato di Pavese potrei -anche inconsciamente – risponderti di sì. In realtà non è così. Ho avuto un’infanzia normale come tanti altri, con momenti felici e altri più tristi. Eppure più cresciamo più quella normalità ci manca. Come mai? Forse perché c’era un mondo da scoprire e non si aveva tempo per altri pensieri e responsabilità? Forse perché da bambini si pensa di avere tutto a portata di mano, basta solo allungarla? Sicuramente è un’età particolare, ma la rendiamo mitica solo quando l’abbiamo persa e cresciamo, lasciando alle spalle le emozioni che avevamo coltivato giorno dopo giorno. Credo si chiami diventare grandi. Maturi, adulti, e con più sensi di colpa e rimpianti. Penso molto al passato. Credo di essere ammalato di nostalgia. A volte sono un completo disastro, pieno di ansie, debolezze, fragilità. Sarebbero meglio mille rimorsi piuttosto che un solo rimpianto, ma non va sempre così. E allora penso al passato con tutti i suoi dubbi e le difficoltà e le contraddizioni, a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Pur essendo consapevole che quel passato non sempre è stato bello, tra incomprensioni, delusioni e fallimenti.

  • Quale è il motore della tua poesia? E che ruolo hanno la nostalgia , il rimpianto e la malinconia?

  • Fossi Bukowski ti direi l’alcool, fossi Kerouac le droghe, Neruda l’amore. Ma sono solo Daniele Cargnino, e il motore con cui scrivo non so se si può dire o se è interessante per i lettori, visto anche il prezzo della benzina! Diciamo che potrebbe essere un po’ di tutto (!!!), oppure un’idea catturata nel mezzo della giornata, un ricordo improvviso mentre osservo una donna o una nuvola, o un sogno che si arrampica sulla schiena e non si toglie più finché non ne scrivi. Non sono sicuro di ciò che si dice a proposito della tristezza, che il vento la porta via. A volte il vento non soffia e la tristezza resta, creando ferite invisibili. La nostalgia è un po’ come il passato, si infila sotto pelle e te la porti dietro ovunque tu vada. Come i profumi di cui scrive Proust, io trovo la nostalgia – e con essa i ricordi- attraverso un paesaggio visto dal treno, o immaginando un incontro con una persona amata che ho perso nel corso degli anni. I rimpianti fanno parte anch’essi della nostra vita, non penso ci sia nessuno che abbia fatto i conti con il proprio passato e sia esente da colpe e rimpianti. Ecco, io sono uno di quelli. E il risultato è questa malinconia di fondo, appena accennata eppure in superficie, che traspare a ogni sguardo, a ogni sorriso sforzato, un non riuscire a godersi le cose fino in fondo, la tristezza che sale come la marea ogni volta che i pensieri si fanno troppo rumorosi.

  • Nella tua poesia convivono cielo e terra. Quanto c’è di carnale e quanto di trascendentale?

  • Sai che non me l’aveva fatto notare nessuno? Cielo e terra, la carne e l’aria, il vento. La dolcezza, il romanticismo e il sesso che assume tanti significati, tante forme. Non saprei tracciare un confine netto alla tua domanda, sicuramente quando parlo di un bacio può essere anche solo sognato o immaginato in una delle mie tante (troppe) fantasie, ma può essere anche un bacio dato (o ricevuto) che ha lasciato dei segni tangibili sulle mie labbra, sulla mia carne. Altre poesie sono più riflessive, introspettive, e forse è lì l’elemento trascendentale di cui parli, quando rimango solo davanti allo specchio e cerco di mettere ordine nelle cose. Ciò non toglie che quando scrivo per qualcuno, ci sono elementi molto forti e passionali. Sai come funziona no? Basta avere davanti agli occhi il soggetto delle tue poesie e iniziare a scrivere con tutto l’amore di cui si è capaci. Così che la poesia, voi stessi e coloro che amate diventiate una cosa sola. A parole sono bravissimo infatti io, poi quando si tratta della parte pratica diciamo che devo ripassare ancora parecchio ahah!

  • Uno scrittore è anche un lettore. Cosa stai leggendo adesso?

  • A parte un giornale sportivo per vedere se la squadra della mia città ha comprato qualche giocatore in vista del campionato (ah, il tifo…), sto leggendo la biogafia di Carver, immenso scrittore americano di short stories e poeta meraviglioso della “quotidianità”. Ho appena finito di leggere libri sui Joy Division-la band- e Nick Cave, i racconti di Salinger e tre libri di Kerouac che mi mancavano. Prossimi credo due di Pavese trovati sulle bancarelle e Dylan Dog.

Grazie dello spazio e dell’opportunità, spero di non avevi annoiato troppo.

Un abbraccio, Daniele

Grazie Daniele di aver risposto alle nostre domande.

 

Simbologie e inconscio nel romanzo LA RESA DELLE OMBRE

di Arrighetta Casini

resadelleombreChiara Rantini, La resa delle ombre, Alcheringa ed., Anagni, 2018

Chiara Rantini esce con questo primo romanzo e già si presenta come una scrittrice matura sia per l’originalità della trama molto avvincente sia per la scrittura sapientemente articolata, ricca, piena di suggestioni, capace non solo di aderire alla psicologia dei personaggi, ma di esaltarla, anzi quasi di esasperarla man mano che la tensione emotiva cresce.

L’Autrice fin da subito mette in gioco tante “cose” dense di significato.

Prima di tutto l’immagine di copertina: una bella foto della stessa Autrice che subito coinvolge il lettore. A me ha fatto pensare alla selva oscura di dantesca memoria.

E’ la selva immersa in ombre ingigantite dalla debole luce di un sole malato che a stento si fa strada fra le nuvole in un sole di uniforme grigio.

Sono però le parole che colpiscono di più perchè dense di significato, prima di tutto la parola “ombra” che, oltre che nel titolo, ricorre molte volte nel testo.

Poi la parola “anima” anche questa usata molto usata con un significato vasto come nell’ex ergo di un filosofo presocratico, Eraclito:

“I confini dell’anima, nel tuo andare non potrai scoprirli, neppure percorrendo ogni strada, tanto profonda è la sua ragione”

Qui non è il caso di addentrarsi in una questione che ha attraversato la storia della filosofia, forse meglio ricordare la frase di Blaise Pascal: “Il cuore ha ragioni che la ragione non capisce”.

Molti ed attuali sono i significati simbolici dell’ombra. Simbolo e mito all’origine della conoscenza e della pittura. Il mito della caverna di Platone: solo ombre possiamo vedere noi esseri incatenati nella caverna. O il mito pliniano delle origini della pittura: l’atto di circoscrivere con un segno l’ombra di un uomo per crearne un’immagine.

Ma è sull’uomo, sulla sua psiche che il significato dell’ombra trova la sua espressione più immediata. Già Robert Louis Stevenson con il suo Dott. Jekill e mr. Hide aveva messo in evidenza il lato oscuro che si cela nell’animo umano .Poi la psicanalisi: l’archetipo dell’ombra elaborato da Jung è legato al concetto freudiano di inconscio.

Secondo Jung l’archetipo dell’ombra rappresenta il lato scuro della nostra personalità. Pensare di non possedere un’ombra è pura illusione, solo nell’oscurità più completa si può non avere ombra.

Per Jung l’ombra disconosciuta minaccia l’equilibrio psichico, ma se riconosciuta e vinta è fonte di energia psichica,

E’ questa la “resa delle ombre”?

Certamente Chiara ci propone un viaggio più articolato e complesso, più interessante e più vivo di una teoria psicanalitica, incarnato in personaggi che ingaggiano una lotta contro le “ombre” specialmente quelle più devastanti della follia in un clima di cupo romanticismo che fa pensare a tipologie nordiche.DSCN1474

Il libro si apre con un prologo che, in realtà, è un epilogo.. Ci dice che sì le ombre si possono vincere.

La protagonista ,Lena, ci è riuscita non grazie a sedute psicanalitiche, ma con la forza che solo la donna ha: quella di generare un nuovo essere, di dare la vita.

Si snoda allora il romanzo come un viaggio all’indietro che ci appare come una lunga discesa agli inferi ora attratta, ora respinta dalla fascinazione non solo dell’amore ma anche della pazzia.

Amore e pazzia è Janis.

Già il loro incontro è strano e denso di segni:

“Qualcosa di scuro mi passò vicino, ne vidi l’ombra confondersi con un’altra”

“Un’intuizione mi suggerì che qualcosa di insolito, di bello, di straordinariamente potente aveva incrociato la mia strada”

Ed ancora:
“Al terzo piano le porte si aprirono ed entrò un uomo avvolto in un cappotto di panno nero: Restai immobile paralizzata dallo stupore:L’ombra che era passata vicino a me il giorno precedente era entrata nell’ascensore. Vidi le dita scarne toccare i tasti e distendersi sulle pareti. Non avevo paura e tuttavia avvertivo un senso di mistero.”

Nasce così con “un carico enorme di emozione” un rapporto intenso e difficile, eppure Lena, ragazza che si trova in un bivio incerto della sua vita, in quel suo camminare per tutta la notte con lo sconosciuto prova “gioia”. Anzi molto di più:
“Compresi che la vita non si esauriva in me ma continuava in tutto ciò che mi circondava tramite connessioni segrete. Tutto era vicino, raccolto come in un punto e finalmente non aveva importanza dove mi trovassi e con chi: non ero più sola”

E’ una sensazione bellissima che ritorna dal passato grazie a Janis che Chiara presenta così:

“Lui era alto magrissimo, il volto affilato come quello di un lupo, i lineamenti perfetti incastonati in una carnagione luminosissima” La

Janis è un musicista, anche Lena è un’artista, dipinge.

Inquietante è anche la casa di Janis:
“Una sensazione di tristezza mi pervase l’anima: lo spazio della casa era solo un universo vuoto senza porte arricchito da pochi essenziali mobili e moltissime stoffe con tende, cuscini, tappeti, arazzi”

Ma il “il doppio” di Janis non è solo una condizione interiore luce-ombra, ma anche fisica: Janis ha un fratello maggiore Adrian con il quale vive quasi in simbiosi , un’unità che si è formata di fronte all’indifferenza e alla povertà affettiva della famiglia.

Lena si troverà nel mezzo, protetta in un certo senso dalla presenza di Adrian che sempre si trova fra i due.

I personaggi del romanzo sono pochi e vivono in un loro mondo che non è tipizzato quanto a tempo e spazio, l’ambiente è proiezione di stati d’animo.

Lena, Janis e Adrian occupano quasi per intero la scena, appare appena Marta, ama Adrian ma sta in disparte conscia che la gran parte della vita di Adrian è occupata da Janis. C’è poi un personaggio sfuggente che appare poco è Alma che si configura come colei che può curare, che sa.

Lena è la protagonista, racconta in prima persona, il susseguirsi delle esperienze ad alta tensione emotiva fino alla drammaticità nelle quali si è gettata con tutta se stessa per sfuggire ad una famiglia apprensiva e appiattita nella più squallida normalità.

Per contrasto l’amore per Janis ha subito i caratteri dell’eccezionalità, una quotidianità che è sempre sopra le righe, dove il sublime, il terribile, l’angoscioso, il tragico si alternano senza trovare una pur minima composizione in una possibile normalità.

Mi sembra che la scrittura di Chiara esalti tutto questo e crei un clima di tensione romantica che rimanda a certi stilemi cari allo Sturm un Drang.

Prima di tutto tratteggiando un paesaggio che non è solo sfondo degli avvenimenti, ma riflette, accompagna, talvolta amplifica gli stati d’animo.

E’ un paesaggio immaginario, Himmelort non esiste, ma ha le caratteristiche di una città del nord: il freddo, i canali, il bosco. Spesso ha i caratteri della fiaba dove tempo e luogo rimangono indeterminati.SDC13493h

“Percorremmo una strada stretta, fangosa che tagliava il centro di uno sparuto villaggio di case contadine dai tetti di paglia…..

L’elemento acqua ha molta importanza in questo paesaggio dell’anima: la pioggia purificatrice, l’acqua morta dei canali o quella oscura e ferma del lago che sembra voler inghiottire Lena e Janis, ma è il mare, ora quieto che appare in uno scorcio, ora in tempesta, ma sempre esaltante e liberatorio.

Vorrei ritornare sulla parola “anima” che spesso ritorna nella narrazione.

La storia di Lena e Janis che Chiara racconta è una storia d’amore nella quale si parla pochissimo di corporeità. Il corpo non appare mai nel godimento dei sensi ma nel dolore, il pianto, la malattia. Questo amore si muove in un’altra dimensione, quella dell’anima, come a voler comprendere nella relazione l’intero individuo esaltando la parte emozionale e psicologica, ancora di più: c’è la volontà di scavare a fondo nell’irrazionalità e nella pericolosità di questa situazione amorosa, di questo amore “misterioso e inaccessibile”

Già Lena aveva intravisto questo percorso difficile:

“In lui avevo visto come in uno specchio un destino di profonda sofferenza e di gioia estatica”

Solo una parola “amore” per indicare tante storie.

Nel romanzo Alma, la donna sapiente, indica tre vie dell’amore:
“La prima segue un percorso pianeggiante finisce di perdersi in un nebbioso orizzonte. La seconda si arrampica per un pendio terminando contro una parete rocciosa. La terza segue una via d’acqua per poi dileguarsi in una vastità luminosa che avrei potuto indifferentemente indicare come cielo o come mare”

Ancora l’acqua in cui la vita è nata e si rigenera potrà portare alla “ resa delle ombre”?