Massimo De Micco si camuffa dietro lo pseudonimo Coppo di Marcovaldo perché per accostare i grandi bisogna indossare una protezione. Tra i grandi annovera Borges, Calvino, Chesterton e Rodari che gli hanno insegnato a rivoltare la realtà come un calzino in cerca di quel poco o tanto di felicità che contiene. E quando non la trova nella realtà la cercherà nella lingua, per l’esattezza sulla punta della lingua dove vanno a nascondersi le parole veritiere. La sua formazione psicologica e il suo lavoro nella formazione professionale lo hanno messo in contatto con tanti “Marcovaldi” in cerca di autore, persone semplici capaci di pensieri complessi, vite ai margini del chiacchiericcio e della reclàme, sorci sordi che non seguono il Pifferaio di turno. E forse per lunga consuetudine un po’ Marcovaldo il nostro autore lo è diventato.
Sono comparse alcune sue poesie nel volume “Affluenti”, ed. Ensemble; ha pubblicato “C’era due volte Marcovaldo“, ed. Fuori Binario, articoli su letteratura, filosofia, scuola e infanzia su riviste specializzate cartacee e online (Tlon, Psicolab, Ecole, Kykeion…) e illustrazioni per le case editrici Giunti e Alpes.
– Poesia, prosa, pittura: quale detiene il posto di onore?
La pittura viene prima, perché disegnavo qualcosina già prima di parlare.
Le parole sono così andate ad unirsi alle immagini e tuttora si accompagnano alle figure che evocavo e anche all’immagine del testo. Scrivo come dipingo, con ampie pennellate che lasciano al pubblico la libertà di ricostruire ciò che sta intorno e dietro.
– Come nasce il personaggio di Coppo?
Marcovaldo è una lettura che mi propose mia madre in una fase della vita in cui non trovavo pi gusto nella lettura. Il rimedio funzionò e di lì a poco ebbi bisogno degli occhiali.
Ho ripensato a quel personaggio quando ho sentito l’esigenza di scrivere con leggerezza di cose gravissime come il razzismo, l’antipauperismo e il sistema delle grandi opere. Coppo si è aggiunto a Marcovaldo quando ho pubblicato i racconti che eccedevano l’edizione cartacea su Facebook, perché Facebook è un gioco e volevo che restasse tale, chiamare l’autore delle mie cose con il nome di un pittore fiorentino che decorò il Battistero insieme a Cimabue mi aiuta a muovermi a mezz’aria tra il cielo della letteratura e l’inferno che ribolle sotto i social network.
– Realtà o fantasia? Cosa ti ispira di più?
Ho assunto un nome d’arte proprio per non essere legato a una scuola o a un modo di fare, perciò le mie fonti di ispirazione variano e sono tante come le risposte che gli scrittori che ho letto hanno dato a questa domanda. Ne ricordo alcune: per Coleridge la poesia è immaginazione, per Wordsworth emozione raccolta in solitudine; un poeta delle nostre parti scrisse “Realtà vince il sogno” e un altro di diversa fede mise in una canzone politica questi versi “Noi non vogliam sperare niente, il nostro sogno è la realtà”. Se guardo indietro a quello che ha combinato Coppo di Marcovaldo e non a quello a cui fantastica di volersi ispirare, direi che o ispirano gli equivoci e i contrasti.
– Parliamo della poesia. Chi sono gli autori che ti hanno maggiormente influenzato?
Troppi, tanto è vero che sono ancora alla ricerca di un mio linguaggio poetico, perché in poesia non ho un marcovaldo che virgilianamente mi prende per mano garantendomi che prima o poi si uscirà a rivedere qualche stellina. Tra tutti mi sentirei di scegliere Guido Gozzano, con la sua attenzione entomologica a scorgere il grande e l’immenso nel piccolo e nel minuscolo e Edgar Lee Masters e la sua impresa titanica di dare ragione di ogni esistenza e dei suoi intrecci con le altre in poche sceltissime parole che però mi pare che non si allontanano mai troppo dall’eloquio lingua familiare, anche se questo bisognerebbe chiederlo a qualcuno per cui l’americano è più familiare. Brecht e Benn, le poesie che scrissero prima delle vicende politiche che li divisero (c’è un Marcovaldo in proposito, “Il Poeta“). Poi la poesia persiana del nostro Medio Evo (Attar, Nezami, Rumi, Hafiz…) Via via sto scoprendo l’universo poetico di un grande autore irakeno recentemente scomparso, un amico, Hasan Hatya al Nassar. Le sue poesie aprono l’antologia “Affluenti” a cui sono felice di partecipare.
– Fai anche delle collaborazioni con riviste locali. Quali sono, secondo te, le criticità maggiori delle città e del territorio fiorentino in particolare?
Il turismo e le grandi opere, due facce della stessa moneta, una moneta che servirà per pagare quanti saranno desiderosi o costretti a lasciare la città in mano a quel brutto intreccio di speculazione edilizia e sfruttamento dell’immagine che chiamano “gentrificazione”.
– Recentemente a Roma è stata allestita una tua mostra di pittura e poesia. Parlaci di questa iniziativa.
Avevo preso il brutto vizio di postare su facebook i miei disegni e qualche quadro e il gestore di un locale dell’urbe che conosco e che ha ospitato alcune serate poetiche a cui ho partecipato mi chiese se volevo unire poesia e pittura in una mostra. E’ il B-Folk a Centocelle, piccolo ma agguerrito, che organizza eventi che a uno che viene dalla provincialissima Firenze sembrano tutti di una qualità inimmaginabile. Per l’occasione commentai in poesia alcuni quadri. Al di là del risultato, vedo con favore la poesia d’occasione che non faceva inorridire i classici e che è stata umiliata dal culto romantico del genio che in fin dei conti ci ha dato le guerre napoleoniche e altri macelli.
– Progetti per il futuro.
Ripeterò l’esperimento del B-Folk in un locale di Firenze Sud a metà febbraio. A breve dovrebbe uscire una nuova raccolta di “marcovaldi”.
– Per concludere, un tuo pensiero da regalare ai lettori.
Leggete Come la Pioggia e seguite questi ragazzi che conosco da tanti anni e che mi stupiscono sempre per come affrontano con coraggio e con costanza ogni nuova impresa.
Grazie a Massimo De Micco e alla prossima intervista!