Le porte della foresta. Un romanzo di Elie Wiesel

le porte della foresta wieseldi Chiara Rantini

Elie Wiesel, Le porte della foresta, Giuntina, Firenze, 2017

Quattro sono le stagioni dell’anno, quattro le prove della vita che Gregor, in fuga dal delirio della persecuzione nazista deve affrontare. Gregor ha perso tutta la sua famiglia, non ha più una casa, non ha più una nazionalità. In lui il processo di sradicamento, di cui parlava Simone Weil ne La prima radice, ha raggiunto il suo apice tanto che il giovane ebreo dubita perfino della propria identità, sospesa in una terra di nessuno, la foresta appunto, e in una zona di confine dove quattro lingue si confondono tra di loro: rumeno, ungherese, yiddish e tedesco. Gregor rischierebbe di perdersi definitivamente e di finire nella mani dei nazisti che lo stanno cercando se non incontrasse, nascosto come lui in un anfratto della foresta, Gavriel, un vero amico che accetta di sacrificare se stesso perché Gregor possa continuare a vivere. E così, assunto il nome dell’amico perduto e dell’angelo guerriero, si unisce ai gruppi di ebrei resistenti che hanno la loro base nei luoghi più inaccessibili della foresta. Ma la via della liberazione è ancora lunga e tortuosa, dovendo passare ancora una volta per il sacrificio di un amico, membro della resistenza. Nell’ultima stagione, la persecuzione è finita, Gregor ha sposato la donna amata dall’amico perduto. La pace è solo un’apparenza perché la guerra continua a generare i suoi effetti nefasti nelle anime di chi l’ha vissuta. Ciò che Gregor, alias Elie Wiesel, continua a chiedersi ripetutamente è quale parte di responsabilità abbia avuto Dio nella tragedia ebraica. Di fronte a tanto e tale orrore, il protagonista sente di doversi ribellare, accusando Dio per la sua cecità. Nelle ultime pagine del libro, discutendo con un chassid, Gregor arriva a mettere in dubbio la fede, interrogandosi su come si possa ancora credere in Dio dopo ciò che è avvenuto. È l’incomprensibilità del dolore che fa scaturire questa domanda a cui, però, il saggio chassid, messo duramente alla prova, risponde con un pensiero che mette in luce il significato della sofferenza nella vita umana:

È disumano volersi chiudere nel dolore, nel ricordo, come in una prigione senza porte, senz’aria. La sofferenza deve aprirci al prossimo, non fare dell’altro un estraneo. Il Talmud dice che Dio soffre assieme all’uomo. Perché? Per rafforzare i legami tra la creazione e il creatore. Dio sceglie il dolore per capire meglio l’uomo e farsi capire meglio da lui. (…)

Colui che si sottopone a una prova difficile deve ringraziare tre volte l’Onnipotente: in primo luogo, di avergli dato la forza di sostenere la prova; poi, di avervi messo fine e, in terzo luogo, di aver istituito la prova stessa. (…) Alla fine della sofferenza, alla fine del mistero, c’è Dio. E all’inizio? Dipende solo dall’uomo che egli sia presente anche all’inizio.

Dio dunque è sempre presente ma spesso l’uomo non avverte la sua presenza. È questo il problema di Dio e dell’uomo su cui tanta saggistica e letteratura ebraica si è confrontata a partire dall’avvento della Shoah. Anche questo libro di Wiesel in definitiva parla del rapporto tra il divino e l’umano e lo fa usando un linguaggio tragico, passionale, a tratti poetico: uno stile comune a molti altri testi di Wiesel, a partire dai quali, i lettori possono continuare a riflettere sul periodo più buio della storia europea.

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